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 2010  settembre 23 Giovedì calendario

Dai martinitt all’impero di carta: la favolosa ascesa del Cumenda - Il cumenda teneva sul la­to della bocca, appena stretta tra i denti, la siga­retta al mentolo

Dai martinitt all’impero di carta: la favolosa ascesa del Cumenda - Il cumenda teneva sul la­to della bocca, appena stretta tra i denti, la siga­retta al mentolo. Era fin­ta, la mordeva, serviva per dargli un tono in mez­zo a quella gente che gli ronzava attorno.C’è una fotografia di An­gelo Rizzoli, scattata da Emilio Sommariva a metà novembre del Trentadue. Rizzoli è in posa come un commendatore, anzi commendatore del Regno, se­condo nomina conferitagli in quei giorni dopo che la tipogra­fia Rizzoli aveva provveduto a stampare le fotografie ufficiali di Vittorio Emanuele e di Benito Mussolini da spedire a tutti gli uf­fici pubblici e scuole. Nell’imma­gine, la giacca è aperta a mostra­re il panciotto, si intravede la ca­tena pendula dell’orologio; sulla camicia bianca spunta un papil­lon sghembo, le mani sono na­scoste, infilate dentro le tasche dei pantaloni, la gamba destra è appena più avanti,l’espressione del viso, con il mento leggermen­te alzato, cerca di essere altera ma risulta impacciata, come di uno costretto a stare lì davanti al treppiede e al Sommariva nasco­sto sotto la stoffa nera della Re­flex. Le sue memorie di marti­nitt, povero tra i ricchi, quelli pet­tinati con la riga, con le gote im­porporate, lui spinto e dimenti­cato all’ultimo banco a scuola, in fondo a destra, con i capelli agi­tati dai pidocchi, in una esisten­za agra, con un padre che si era tolto la vita davanti alla miseria, una sorella che di fame muore anch’essa, un’infanzia difficile, una luce che tarda ad arrivare, i suoi ricordi, dunque, che cosa mai potevano c’entrare con quel momento, con quello scatto, quel ritratto austero e quel titolo tronfio? La storia di Angelo Rizzoli è la storia di un uomo che non legge­va i libri, quelli che pubblicava e gli altri, ma sapeva leggere gli uo­mini e la loro vita, è la storia di un uomo che non amava i falsi ric­c­hi perché non aveva dimentica­to la propria vera povertà, è la sto­ria di un tipografo che si sveglia­va al buio di un’alba non ancora nata e rientrava nella luce scura della notte, spingendo sui pedali del triciclo per tornare a casa, portandosi appresso l’odore del piombo e la fuliggine nera delle linotype. Si narrò che Angelo, con un suo compagno di lavoro, sottraesse, di tanto in tanto, qual­che risma di carta, ritagliavano i fogli, trasformandoli nei bloc­chetti dei conti per le osterie e i trani milanesi. I primi denari. Sembrano pagine o fotogrammi di un film poetico e romantico, Rizzoli era la fabbrica della fanta­sia, come di lui scrisse Oriana Fallaci. La fabbrica e la fantasia sono due cose che non dovreb­bero andare insieme ma sono la sintesi di un favola reale. Angelo Rizzoli era un martinitt dunque, vengono chiamati così gli orfani dell’oratorio di San Martino. Quando entrò nell’istituto mi­lanese, era febbraio, il giorno die­c­i del milleottocentonovantacin­que, si sentì finalmente un pove­ro in mezzo ai poveri, il banco non fu più l’ultimo,in fondo a de­­stra, i capelli, che sua madre provvedeva a tagliare, non era­no più territorio libero. Rizzoli si fermò alla quinta elementare, il suo italiano era spesso incerto, non sapeva di letteratura e di lati­no ma la sua lingua era comun­que comprensibile, educata, mai volgare, faticava a ricordare i cognomi: «...come si chiama quel lì, quel Napoleone a Ca­scais... ».Roba piccola rispetto al­l’impresa grandiosa che seppe mettere assieme, nell’editoria, tra quotidiani, riviste, libri, enci­clopedie, nelle opere edili, fab­briche, ospedali, cartiere e poi la produzione dei film, la Cineriz. Il cinematografo era il luogo dei sogni, diventò La Dolce Vita e Ot­to e mezzo , un oscar, Fellini e le donne, belle, grandiose, fascino­se. Andava in Rolls Royce al festi­val di Cannes ma non era cilin­drata sua, si sentiva buffo e goffo, ricordando i pedali e il triciclo. Rizzoli viaggiava sul treno Sette­bello, il suo sette di denari lo met­teva sul tavolo da mezzo secolo, teneva in tasca, sempre, un maz­zo di carte; il gioco, anche d’az­zardo, lo divertiva; al casinò, quando la pallina della roulette si fermava sul numero da lui scel­to e puntato, lo spettacolo era ga­rantito, la finta sigaretta al men­tolo tremava tra le labbra, non per l’emozione ma per il sorriso, la cintura dei pantaloni, portata alta, quasi sotto il petto, seguiva la danza. Il tipografo che aveva debiti e cento operai era diventa­to ormai un impresario, il com­menda non aveva bussato alle banche per crescere e poi chiede­re aiuto, i conti tornavano, si scrisse che prima della guerra il suo patrimonio superasse il mi­liardo di lire, alla sua morte la somma superava i 180 miliardi: «i quattrini bisogna farseli perdo­nare », quando usciva dal suo uf­ficio spegneva la luce anche del­­le altre stanze vuote: «bisogna ri­sparmiare sulla bolletta », i politi­ci gli ronzavano attorno per ga­rantirsi, loro, un supporto e, ma­gari, qualche bella femmina, le monete d’oro che il commenda distribuiva agli amici e cono­scenti, una gita sul Sereno, il pan­filo che aveva a bordo John Way­ne e la Taylor, un film tra le onde del mare. L’amicizia con Pietro Nenni non rientrava in questa catego­ria. Nenni era orfano come Riz­zoli, i due trovarono simpatia nella memoria degli affetti man­cati, nessun patto politico, nes­sun fiancheggiamento di propa­ganda, Pietro era un amico non un compagno, eventualmente di giochi, da osteria, le carte, le bocce. Angelo Rizzoli era antico­munista e anticlericale, la sua fa­zione ideologica stava a destra ma l’idea non veniva mai svilita dai comportamenti e dai lin­guaggi. Quando Rizzoli preparò un as­segno di duecento milioni (!) e lo presentò a De Sica per dirigere Don Camillo , il grande regista oppose un rifiuto temendo di ini­mi­carsi i capi del partito comuni­sta. Non amava Sordi e il sordi­smo, il piccolo italiano di una pic­­cola Italia, aveva grande traspor­to per Walter Chiari, il grande ita­liano di un’Italia possibile, fanta­stica non fantasiosa. Angelo Riz­zoli sapeva di essere un somaro: «sì un somaro che ha fatto una casa editrice, un somaro che ha fatto una cartiera, un somaro che ha costruito le terme e un ospedale», era un uomo che non aveva dimenticato l’infanzia e le notti faticose nella nebbia mila­nese, il suo saluto era ancora la mano alla visiera del Borsalino come faceva da garzone di tipo­grafia, con il cappellino a cilin­dro sulla divisa da lavoro; era un uomo superstizioso in soggezio­ne davanti ai giornalisti. Noi italiani eravamo circonda­ti da quel marchio, l’erre verde, sui libri della Bur,sull’Enciclope­dia Treccani, sulle riviste, Oggi , Candido , l’ Europeo , Bella , via Rizzoli, Il Corrierone, la Milano del boom, la Milano da bere che si è bevuta l’impresa di Angelo Rizzoli, il commendatore, quel­lo con i pidocchi, solo, nell’ulti­mo banco, in fondo a destra. Nella stanza 256 della clinica Columbus la luce si fece debole, fino a spegnersi, la fabbrica di fantasia, dopo ottantuno anni, concludeva la sua storia. Era la sera di giovedì ventiquattro set­tembre, del millenovecentoset­tanta.