Michel Rouche, Il Messaggero 21/9/2010, 21 settembre 2010
ATTILA, QUANDO ROMA STAVA PER CROLLARE
Il culto dell’eternità di Roma corrispondeva nondimeno a una realtà, quella restaurata dagli Illiri e che penetrava fin nei recessi degli appartamenti imperiali, dalla più piccola cittadella fino al Sacro Palazzo. Diocleziano fu il primo a dividere il territorio in due Imperi, ciascuno con a capo un Augusto e un Cesare. Questo sistema, detto Tetrarchia, era finalizzato a migliorare la difesa militare evitando che un solo imperatore fosse costretto ad accorrere dall’Eufrate alla Gran Bretagna al minimo pericolo. Esso accorciava il manico del martello per poter colpire più velocemente e con maggiore forza. Tale ordinamento era stato abolito da Costantino e poi da Giuliano (361-363). Furono i generali dell’imperatore Giuliano a ripristinarlo designando i fratelli Valentiniano I (364-375) e Valente (364-378) a capo rispettivamente dell’Occidente e dell’Oriente. Teodosio I (379-395) fu l’ultimo imperatore a guidare da solo il mondo romano. Alla sua morte, avvenuta a Milano il 17 gennaio 395, egli lasciò l’Oriente al figlio maggiore Arcadio, che al tempo aveva 17-18 anni, e l’Occidente a Onorio che invece aveva appena 11 anni.
Il problema dello spartiacque tra le due zone dell’Impero si pose subito: dove doveva essere stabilito il confine?
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L’Illyricum orientale, assurto ormai al rango di prefettura (ossia le diocesi di Dacia e di Macedonia), continuò a essere il pomo della discordia tra i due Imperi non soltanto sul piano militare, ma altresí su quello religioso, in quanto il patriarca di Costantinopoli tentò in ogni modo di strappare le diocesi di Dacia e di Macedonia all’obbedienza papale, anche perché lo spartiacque linguistico che separava il greco dal latino divideva le due parti dell’Impero pressappoco lungo gli stessi confini, tranne che sulla riva destra del Danubio.
Cosí, a partire dal 395, le due parti dell’Impero romano presero lentamente a separarsi sia nella sfera della civiltà – con una popolazione in maggioranza di lingua greca – che nell’ambito delle operazioni militari. Da quel momento non fu più possibile esercitare sul Danubio un unico comando romano. Certo, fino agli inizi del V secolo l’Oriente manifestò a più riprese la sua solidarietà nei confronti dell’Occidente, ma ormai non più attraverso operazioni congiunte. Quella che ai suoi esordi era stata una riforma azzeccata si ritorse contro i suoi stessi promotori illirici. Il confine tra Oriente e Occidente divenne de facto una linea di frattura, per due motivi. Ben presto cominciò ad affiorare la tentazione di deviare sull’Occidente i barbari penetrati in Oriente. Inoltre, gli Unni, stabilitisi nella pianura ungherese a nord di Sirmio, ossia proprio alla giunzione tra i due Imperi, potevano attaccare l’una o l’altra parte dell’Impero, a seconda dei rapporti di forza del momento.
Ciò, tuttavia, non emerse subito, tanto la riforma amministrativa quanto quella militare sembravano solide. Disponendo del controllo dei mari, Roma poteva ovviare all’eventuale interruzione dei traffici via terra. Le sue capitali furono dei porti. L’11 maggio 330 Costantino aveva fondato sulle sponde dello Stretto del Bosforo la città di Costantinopoli come una novella Roma. Ben presto Costantinopoli si sviluppò e assunse un ruolo politico e religioso di prim’ordine. In Occidente Roma, abbandonata a vantaggio di Milano, era stata sostituita nel 402 con Ravenna – che aveva un proprio porto artificiale, Classis –, all’ombra delle cui mura Onorio risiedé a lungo. I due capi dell’Impero rimanevano dunque in comunicazione attraverso il mare. Infine, come quartier generale dell’Impero furono scelte alcune città non lontano dal Reno e dal Danubio, che consentivano di controllare le vie di comunicazione interne verso i fronti di guerra. Si trattava di Treviri in Gallia, dove Costantino risiedé spesso. In Illiria, invece, furono Sardica (Sofia) e soprattutto Sirmio. Quest’ultima fu restaurata nel 372 da Probo, il prefetto del pretorio di Illiria-Italia-Africa che vi si era trasferito:
Fece ripulire le fosse coperte di macerie e, poiché aveva un’innata passione per le costruzioni, riparò la maggior parte delle mura sino ai merli delle torri, dato che per il lungo periodo di pace erano state trascurate ed erano cadute in rovina. Il lavoro fu compiuto in breve, poiché aveva trovato che il materiale di recente raccolto per edificare il teatro era sufficiente per i progetti che s’affrettava a realizzare. A questo piano eccellente aggiunse un’altra decisione salutare: fece venire dalla più vicina stazione una corte di arcieri che sarebbe stata di aiuto in caso di assedio (Ammiano Marcellino, xxix 6 11).
La città di Sirmio non aveva teatri, tanto meno anfiteatri come Treviri. Per quanto fosse dotata di tutte le attrattive di una vita di piaceri quale era quella dei Romani, nonché di terme e di un circo per le corse dei cavalli, Sirmio rimase una capitale di retroguardia, trovandosi a due giorni di cammino dal Danubio. Quanto a Probo, egli deve aver sentito – se per preveggenza o grazie ai suoi servizi di informazione non è dato saperlo – venti di minaccia che soffiavano da qualche anno sulle città della Crimea a causa di altri arcieri a cavallo, gli Unni. Il ruolo militare di Sirmio era dunque cruciale. Ma non solo. La città fu altresí un polo di romanizzazione e di cristianizzazione.