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 2010  settembre 20 Lunedì calendario

CALVINO IL CAVALIERE CONSISTENTE

«IL tuo lavoro all’ufficio stampa serve a proporre un libro, non ad imporlo. Chi legge una “quarta di copertina” è come se ascoltasse le prime battute di una ragazza sconosciuta che ha agganciato sul tram. Se lei esagera, chiacchiera troppo su tutto, sé stessa, gli altri, il mondo e i problemi, molto probabilmente il suo interlocutore scenderà alla prima fermata. Se invece sa dosare gli argomenti e gli dà quel tanto che basta a incuriosirlo, le sarà chiesto un appuntamento. E un appuntamento in libreria è quasi un acquisto».
Guido Davico Bonino, saggista, critico letterario e teatrale, a lungo docente di Storia del Teatro all’Università di Torino, ricorda Italo Calvino. Che 25 anni fa nato a Cuba, cresciuto a Sanremo e vissuto per oltre quarant’anni fra Torino e Roma moriva all’ospedale di Siena dopo essere stato colpito da un ictus, ad appena 62 anni, nella sua villa di Roccamare, a poche decine di chilometri dalla città del Palio.
Davico successe allo scrittore, nel 1961, nell’incarico di responsabile dell’ufficio stampa della casa editrice Einaudi, nei mitici uffici torinesi al primo piano di via Umberto Biancamano 1. «Avevo 23 anni racconta . Sulla rivista “Il Caffè”, fondata e diretta, a Roma, da Giambattista Vicari, era uscito un mio saggetto sulla trilogia di Calvino I nostri antenati. Lui l’aveva letto, si era informato presso Vicari, che era suo amico, e mi telefonò. Parlava a intervalli, fra pause di silenzio. A un certo punto mi offrì a bruciapelo di prendere il suo posto all’Einaudi. Per un anno intero fu il mio coach. Esigente, formativo, massacrante. Leader indiscusso della casa editrice, era il direttore letterario pur senza volerne il titolo. Nella sua squadra, dove mi aveva fatto entrare, c’erano “giocatori” come Daniele Pochiroli, Roberto Cerati, Giulio Bollati, Oreste Molina... per non parlare di Giulio Einaiudi, il vertice».
Quale, il tratto principale di Calvino nell’essere “capo”?
«Il culto del lavoro. Il senso di tutto, per lui, era il lavoro. Nella sua etica calvinista, il “faticare” dava senso al resto, all’esistenza, al diritto di vivere. In quei 365 giorni di apprendistato al suo fianco, con le scrivanie vicine, questo suo modo di pensare mi fu ben chiaro. Proprio per il troppo lavoro morì in quel modo. Per la grande fatica che gli era costato preparare le Lezioni americane».
In cosa consisteva, nella pratica, la sua “tirannia” lavorativa?
«Nel farmi scrivere e riscrivere, nel rileggere, rivedere, analizzare. Nel rendermi consapevole che la cosiddetta “scrittura funzionale”, cioè i retri, i risvolti, i comunicati stampa, è importantissima e va curata al meglio. Nel mettere bene in chiaro che solo attraverso la disciplina quotidiana si arriva a qualche risultato. In altre parole: non ci si deve sottrarre, ci si deve rompere le palle, essere presenti e faticare per poi poter dire, eventualmente, son quel che sono. Aveva lavorato all’ufficio stampa della Einaudi per un decennio senza mai snobbare quel compito, otto, dieci ore al giorno. E quando divenne consulente, pur abitando a Roma arrivava in casa editrice il lunedì e ci rimaneva fino al venerdì, ogni giorno lo stesso numero di ore. Scriveva sul retro delle bozze, da buon ligure, per parsimonia».
Quali critiche di Calvino le sono state più utili?
«Come ho già detto, Calvino era il vero direttore letterario della Einaudi. Nessuna Collana porta il suo nome, ma tutti sapevano, tutti riconoscevano. A quei tempi si saliva per merito, e secondo i meriti si veniva considerati. Accoglievo dunque come preziose tutte le sue indicazioni, non mi ritraevo di fronte a nessuna richiesta, a nessuna disamina, a nessun rifacimento. Del resto, fin dal primo momento in cui mi ero messo al lavoro, mi aveva annunciato di essere un “pedagogo repressivo”. Una volta mi obbligò a scrivere dieci versioni diverse di una “quarta di copertina”. L’ultima gli andò bene, ma precisò era la fine della giornata che l’avrebbe ricontrollata il mattino dopo».
In sintesi, che tipo di comunicazione esigeva?
«Voleva che la scrittura rispettasse tre canoni: concretezza dei concetti, rifiuto di qualsiasi immagine non aderente ad essi (non amava le metafore), necessità assoluta degli aggettivi. Un aggettivo, cioè, doveva essere sempre indispensabile. Famosa la sua idiosincrasia per l’aggettivo struggente: “Ma cosa vuol dire? ripeteva Non vuol dire un fico secco!”. Io, allievo di un maestro di italianistica quale Giovanni Getto, avevo imparato ad usare parole ricercate, per non dire preziose, e adottato il cosiddetto stile “alto”. Quell’aggettivo, struggente, mi piaceva e lo adoperavo spesso; Claudio Magris, anche lui studente di Getto (sono stato il suo tutor all’Università) lo usa ancora. Calvino la pensava in modo diverso. Prima di dargliela vinta, tentai di replicare che probabilmente, qualche volta, l’aveva adoperato anche lui, magari in qualche racconto. E lui: “Tira fuori, tira fuori, fammi vedere”. Non sono mai riuscito a prenderlo in castagna».
Dopo quanti anni si è sentito “affrancato” dal pedagogo repressivo, per usare la definizione che Calvino aveva coniato per sé?
«Non mi sono mai affrancato. Ricordavo in un articolo, pochi giorni fa, che appena diventai critico teatrale della “Stampa”, scrissi come primo pezzo la recensione dell’Antonio e Cleopatra di Shakespeare, con Albertazzi e la Proclemer, visto all’Alfieri. Calvino lesse e mi telefonò da Roma. Beccai una stroncatura. L’Egitto shakespeariano che avevo descritto aveva, secondo lui, troppi merletti: “Ma cosa ti è venuto in mente? Per Shakespeare l’Egitto era Londra, una città melmosa e sporca... Lo spettacolo? Non l’ho visto. Di quello non posso dir nulla».