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 2010  settembre 23 Giovedì calendario

2010 L’ AMORE AI TEMPI DELLA LEBBRA


L a malattia, dice il Dizionario di teologia di Karl Rahner e Herbert Vorgrimler, è una manifestazione estrema della situazione creaturale dell’ uomo, cui essa sottrae almeno parzialmente la capacità di disporre di se stesso, ponendolo in una situazione rischiosa o estrema in cui può dare il peggio o il meglio di sé.

Quasi ogni epoca, inoltre, ha le sue malattie, che ne esprimono caratteristiche e contraddizioni fondamentali, finendo per diventarne un simbolo. Così la peste dall’ antichità al Medioevo al Seicento, la sifilide o la tubercolosi nell’ Ottocento, il cancro o l’ Aids ai nostri giorni, per non parlare della follia.
Tanta grande letteratura si è confrontata a fondo con la malattia e soprattutto con le simboliche malattie epocali: dalla peste di Tucidide, Lucrezio, Boccaccio, Chaucer, Defoe, Manzoni o Camus all’ epilessia di Dostoevskij o alla tisi di Thomas Mann, per citare solo alcuni esempi.
Malattie nascono, scompaiono - non ci si vaccina più contro il vaiolo - ritornano.
La lebbra è quasi scomparsa dal nostro immaginario, anche se pare esistano al mondo ancora circa settecento lebbrosari.

Così scrive almeno Dario Grgic recensendo un forte, originale romanzo di Ognjen Spahic, I figli di Hansen, in cui la lebbra diviene, con grande intensità poetica, metafora del mondo e in particolare della storia contemporanea.

Nato a Podgorica, la capitale del Montenegro, nel 1977, musulmano, Spahic è una voce di punta di quella giovane generazione intellettuale montenegrina schiettamente moderna e liberaldemocratica, aperta, culturalmente occidentale e affettivamente legata alle proprie origini, che si oppone al tradizionalismo talora regressivo ancor presente nel Paese, un Paese di recente indipendenza e di ancor fragile democrazia.
Il titolo del suo assai notevole romanzo deriva dal nome dello studioso norvegese Hansen, che nel 1873 isolò il virus della lebbra; l’ azione si svolge nell’ ultimo lebbrosario della Romania sud-orientale, situato nei pressi di una fabbrica di concime chimico.

Chiuso al mondo, il lebbrosario è un universo concentrazionario, in cui esistono solo malati e che si regge sulla contrapposizione «noi-altri», «isolamento-non isolamento». Spahic narra con vera potenza poetica la vita dei reclusi, il rituale quotidiano dei loro gesti, l’ arrivo dei pacchi di aiuti umanitari della Croce Rossa Internazionale da cui doganieri e contadini affamati hanno sottratto i cibi più ghiotti; le lattine di succhi di frutta tropicale che inducono «i tignosi» (i lebbrosi), mentre le aprono con le loro mani marcite, a sognare le belle mani delle ragazze caraibiche che pochi mesi prima hanno accarezzato quella frutta.

L’ esistenza dei «tignosi» è fatta di rivalità e anche di amori, di reciproca curiosità per le misere escrescenze dei loro corpi e per gli abrasivi progressi del male, per le fessure scure e mollicce che hanno preso il posto dei nasi o per gli organi sessuali maschili, «assai simili, in certi stati della malattia, alla radice secca della genziana o di un rampicante, alle dita storte e inutilizzabili della vecchiaia».

Ma la vita, il sentimento, la passione irrompono anche fra i corpi e le anime chiazzate di macchie biancastre come neve e Spahic narra di amicizie, di amori, di rivalità, di grandezza umana strappata all’ estrema debolezza di una carne lesa e vilipesa; la bellezza incantevole della natura che si offre all’ occhio sano e si altera, per l’ altro occhio devastato, in una nebbia gommosa.

Le pagine finali - in cui l’ Io narrante trascorre i suoi giorni in un faro dell’ Adriatico, in un altro isolamento - hanno una struggente e secca poesia della solitudine. Poesia resa con grande intensità dalla versione ancora inedita di Ljiljana Avirovic, magistrale traduttrice dall’ italiano in croato ma pure, come in questo caso, traduttrice dalle lingue slave in italiano, anche di grandi autori quali Bulgakov o Pasternak.

Ma quel lebbrosario è anzitutto uno specchio, deformato e deformante ma paradossalmente veritiero, della storia del mondo ed è in questo che risiede la caratteristica più rilevante del romanzo. Intorno a quella prigione crolla un’ altra prigione, il regime di Ceausescu.

Spahic è riuscito a scrivere anche una parabola, grottesca e precisa, di un evento storico epocale e universale come la caduta del comunismo nel 1989. Ancora una volta, anche grazie alla letteratura, la malattia - l’ evento più personale, talora incomunicabile, nell’ esistenza di un individuo - diviene il volto del mondo.