Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  settembre 22 Mercoledì calendario

LUI E WARHOL, ARTISTI IMBATTIBILI NELLA STRATEGIA COMMERCIALE

Sono morti a due anni di distanza l’uno dall’altro: Dalì nel 1989, a 85 anni; Warhol nel 1987, a 57 anni. Il primo qualificava l’arte moderna come «una merda insopportabile» ma come altrimenti si potrebbe definire il suo telefono-aragosta se non pop? Il secondo fu il simbolo per eccellenza dell’arte moderna ma è diventato subito un classico con opere assurte a icone del Novecento.
Che cosa li unisce? L’aver trasformato il proprio volto in marchio, né più nè meno di un brand industriale. Come la scritta sinuosa della Coca Cola o la mela della Apple, così i baffi neri arricciati e la parrucca bianca sono stati rispettivamente il marchio di fabbrica individuato da Dalì e Warhol per perseguire una strategia di visibilità e immediata riconoscibilità.
Non si tratta di semplice dandyismo, forma ottocentesca di esibizionismo legata a una sindrome narcisistica individuale; e nemmeno della consueta ossessione di gran parte degli artisti per il proprio volto, che ha portato molti, come nel caso di Rembrandt, a dipingersi lungo l’arco di tutta la vita.
Per Dalì e per Warhol si è trattato piuttosto di una strategia commerciale, resa possibile dai nuovi mezzi di comunicazione di massa, dalla fotografia, dal cinema, dai rotocalchi.
Il metodo è stato preso a prestito dal cinema dove la riconoscibilità, affidata a un preciso carattere distintivo dell’attore o dell’attrice, è il primo essenziale strumento di comunicazione. Poi ci sono i gesti, le manifestazioni eclatanti, sopra le righe, che servono a generare scandali e insomma a far parlare del personaggio. Dalì, per esempio, si presentò a una conferenza a Londra vestito con casco e tuta da palombaro e due levrieri al guinzaglio. Il gioco sta nello stare contro l’establishment ma tuttavia sempre dentro l’establishment; nel frequentare e farsi fotografare con quella «nazionalità senza nazione» che si ritrova, sempre uguale, da un cocktail a Montecarlo a una festa a Venezia o a New York.
Altro requisito di visibilità è diversificare il brand: l’arte è un settore della creatività elitario, che non raggiunge tutti e non gode di una distribuzione diffusa. Dunque è importante essere presenti anche nel design, cinema, grafica, pubblicità, editoria, televisione, moda e persino, come nel caso di Warhol, nei progetti per cibi surgelati o, nel caso di Dalì, del logo dei Chupa Chups.
In questa ottica, la mercificazione del marchio, il guadagno facile, ottenuto trasformando l’Arte in gadget, come sostengono i detrattori, non è considerato un’onta ma un progetto.
Sia Dalì (con meno successo) che Warhol hanno scientemente trasformato baffi e parrucca in macchine per fare soldi: il primo fu soprannominato da André Breton «Avida dollars» (anagramma col significato di «avido di dollari») tanto aveva messo la strategia commerciale davanti alla sua opera; il secondo, cinico teorizzatore della Business art («Voglio essere un Business-Man dell’Arte o un Artista del Business. Essere bravi negli affari è la forma d’arte più affascinante») fu l’inventore della Factory, uno studio artistico che poteva lavorare anche senza di lui. «Per tutto il tempo in cui sono rimasto all’ospedale, lo staff ha continuato a lavorare, così mi sono reso conto che avevo veramente messo su un business dinamico che procedeva anche senza di me. Io ho cominciato come artista commerciale e voglio finire come artista del business».
Nella Vienna asburgica, Klimt vestiva lunghi camicioni per darsi l’aria da profeta; Picasso esibiva la passione per le donne e i tori; Frida Kahlo si lasciava crescere baffi e Tamara de Lempicka giocava sulla sua androginìa. Ma queste erano ancora banali forme di dandyismo. Nessun artista prima e dopo Dal ì e Warhol, nemmeno le super star di oggi come Jeff Koons o Damien Hirst, ha saputo o voluto mettere in atto la strategia pubblicitaria della propria immagine in modo altrettanto programmatico. Per tutti gli artisti, narcisi per eccellenza, la posta in gioco è l’immortalità. Ma evidentemente resta ancora forte il dilemma: conviene scommettere sull’opera oppure su baffi e parrucca?
Francesca Bonazzoli