Marco Ciriello, Vanity Fair n.38 29/9/2010, 29 settembre 2010
PIO È MIO
Il suo miracolo vero è aver fatto di sé una dimensione geografica. Le persone non dicono «sono o vado a San Giovanni Rotondo», ma «sono o vado a Padre Pio», come se fosse una città e non un santo, e prima un uomo. La lingua è nazione, oltre che anima. In questo caso spia della prima città nata come estensione di un corpo, figlia della nostalgia e di un forte sentimento di contiguità con la santità e la sua forma terrena riconosciuta nel cappuccino di Pietrelcina – secondo i fedeli e la Chiesa –, che si va ricostruendo con immagini e video nelle case degli italiani e su YouTube, e che si materializza nelle statue di Padre Pio deposte per le strade del mondo. Qualcuno prima o poi le conterà e ne farà una mappa alternativa: della fede e di San Pietro. Gli uomini e le donne che vengono qua sono sì fedeli ma anche e soprattutto montatori di un grande unico film, che ha lo scopo di far esistere, seppure inconsciamente, Padre Pio Town, dove il santo vive in continua contemporaneità con i suoi fedeli. La sceneggiatura ce l’hanno messa i frati, allestendo un santuario che è corpo e ricordo, faccia e pensiero votati a quando c’era Lui. Il resto – il film – è venuto da sé: con le macchine digitali e i telefonini con telecamere. Milioni di comparse e di registi. È la religione dei polpastrelli che si manifesta con i pixel. Ma questo lo capiranno fra un po’ di tempo, se provate a chiedere perché, invece di pregare, scattano foto o riprendono la cella e la fila per arrivarci non sanno rispondere, qualcuno che è più avanti molla un: «Per condividere».
GADGET
Si comincia ottanta chilometri prima, all’uscita autostradale di Candela, dove un uomo regala foto di Padre Pio in nome dei figli che devono campare. Si prosegue dribblando hotel, ville, ristoranti e camere ammobiliate con effigi, e si arriva ai ragazzi che imitano lo zelo del Sordi nel Vigile e si sbracciano per accaparrarsi le auto – i pullman hanno un check-point che li ha messi in salvo dai tormenti – e si finisce in un parcheggio a tre piani non ancora completato (si aspetta un quarto). Si esce su una piazza dello stupore dove si trovano Padre Pio di ogni ordine e misura (la statua 1:1 costa 2.500 euro, trasporto gratis in tutto il Sud Italia), ma l’immagine del suo viso viene venduta anche in pura seta e disegnata sulle tegoline come negli orologi, perso tra i pastori del presepe e protagonista della saga in dvd: Padre Pio e i Papi, Padre Pio e i suoi luoghi, Padre Pio e i fedeli, e se il rosario profumato – visto come è messo l’Occidente – passa, davanti alla vuvuzela di Padre Pio bisogna fermarsi a chiedere: «Perché? Perché?».
NoSTALGIA
L’Italia è un Paese fondato sulla nostalgia, ancora rimpiangiamo gli anni ’60, in letteratura scarseggiano le ipotesi di futuro, fantascienza nemmeno a parlarne, e abbondano i racconti di famiglia in quegli anni, con i sacrifici e le conquiste. Qui tutto guarda a un passato preciso, quello che era lo sfondo della vita di Padre Pio. Nei bar ristoranti pizzeria con annessa stanza di oggetti sacri (quando non ti imbatti in quella ci sono i punti per abbonarti alla Voce di Padre Pio) hanno alle pareti il paese che fu e i contadini che si affollavano davanti al convento. Tutto quello che riguarda la vita del santo a leggere l’unico libro non agiografico, quello di Sergio Luzzatto (Padre Pio. Miracoli e politica nell’Italia del Novecento), suona strano. Come è strano che un uomo dalla vita poco terrena sia poi stato legato (dagli altri) a tutto quello che gli apparteneva. Il confessionale: sigillato. La cella: sigillata. Calici, abiti, panni, lettere: tutto sotto teca. A renderli vivi, immagini di incidenti stradali e fototessere, infilate a forza sotto il vetro: così anche le reliquie sono diventate immagini. Il concetto è sempre lo stesso: incidente o malattia vengono visti come una punizione, superarli è una grazie ultraterrena. «Caro Padre Pio ti prego, metto questo problema fisico nelle tue mani, sono sicura che il Signore mi perdonerà e guarirò». E persino chi non ha avuto problemi, come il maresciallo Sacco che incontro con una croce in spalla e la famiglia al seguito in attesa della benedizione (che un frate indiano elargisce su richiesta), prima della via crucis mi dice: «Lo faccio perché ho avuto una vita fortunata». Tutto ha e deve avere un prezzo. Quasi che Dio o chi per lui funzionassero da polizza assicurativa.
PAPA
L’unico ad avere un ruolo di spalla è Karol Wojtyla, con una statua in cera. Wojtyla ha anche un poliambulatorio dell’ospedale a suo nome, con all’ingresso un’altra statua ma di bronzo, a riconoscimento del suo rapporto con il santo e del suo sforzo di andare oltre le diffidenze di una parte della Chiesa. Soprattutto, ha un percorso di sofferenza terrena e di sopportazione che i fedeli vedono come unica strada verso Dio: anche se Giovanni Paolo II non profumava e non sanguinava, condivideva quella strada. Il dolore è un capitolo a parte, non è come a Lourdes dove è nell’aria, qui il dolore è canonizzato e alleggerito: tutto porta lì, si comincia dal sangue e si finisce al corpo, da cercare, vedere, fotografare. È sul corpo dei fedeli e del santo che passa la religione, è come se tutta l’immaterialità di Dio dovesse trovare, qua, una forma.
SEPOLCRO
La vecchia chiesa di Padre Pio è un grande sepolcro vuoto. Oltre a fare da motore per la nostalgia con tutti gli oggetti del santo, è solo un baule di ricordi, dove a vincere nonostante gli sforzi è l’assenza, che culmina nella cripta dove c’è questo vuoto di corpo e bara che non può non alludere alla resurrezione di Cristo (anche durante la messa i padri celebranti si rivolgono al santo come a Dio, dimenticando/omettendo per eccesso di amore la gerarchia: Padre Figlio Spirito Santo). Lo spazio bianco dello scavo e il grosso masso di marmo nero, discosto, dicono lui non è più qui. In un altro posto sarebbe una stanza vuota, presto dimenticata, qui invece diventa l’ennesimo luogo nostalgico.
Frasi
Ce ne sono tantissime sotto le statue, accanto alle immagini, poi ci sono le note di chi l’ha conosciuto, di quelli che hanno condiviso un momento, un episodio, e via così. A me pare che l’unica che regga e che abbia un mondo dietro sia: «Ognuno può dire Padre Pio è mio». Ed è una frase sua. Che sembra anticipare la spartizione che viene fatta del suo corpo divenuto città.
Cappuccini
Tranne quelli preposti a benedire le croci, confessare, e ad altre mansioni che mi sono perso, il resto, né prima di celebrare la messa né dopo averlo fatto, ha tempo per parlare. I più giovani vanno di fretta, quelli più anziani ci tengono subito a stabilire un rapporto di forza e a prendere le distanze. Alla fine non riesco a ottenere nessun tipo di risposta, ma solo conversazioni superficiali e sfuggenti.
Preghiere
Forse sarò io a credere – sbagliando – nell’arcaicità della preghiera, che è concessione, anche generosità di sé verso gli altri, che non contempla l’io ma che è per gli altri, in nome degli altri, come la storia di Cristo e di molti santi dimostra. Qui l’impressione è che l’io prevalga e la spiritualità sia quasi del tutto assente, le preghiere hanno un codice e sono prescritte come le domande in carcere, c’è un modello da compilare con il nome del solo capofamiglia sul retro.
Gente
Se il culto verso Padre Pio è trasversale, il pellegrinaggio (almeno nei miei giorni di presenza) è a senso unico: anziani e proletari, soprattutto provenienti dalla provincia. Ci sono quelli che arrivano in gruppo con una congrega e salgono alla chiesa con fasce o maglie di un solo colore come boyscout, recitando il rosario per strada e chi, da solo, si gioca l’unica uscita dell’anno per la messa e la richiesta di grazia.
Auto
Sotto la chiesa nuova, trovo due auto: una vecchia Fiat 1300 targata Napoli, con foto che ritrae Padre Pio a bordo, una delle sue poche uscite, e una Citroën coupé senza targa: scoprirò da YouTube essere l’auto che trasportò il feretro e dalle immagini dell’epoca rimango colpito per la bara aperta e il funerale molto televisivo, in anticipo sui tempi. Il resto lo fa il sito, che lo associa ai funerali di Giovanni Paolo II, Totò e Verdi.
Nuova chiesa e tomba
La chiesa progettata da Renzo Piano è un guscio rovesciato, il cui unico pregio è il vuoto, non ci sono statue, ma solo un crocifisso e una scultura sotto l’altare. Lo sfarzo invece invade la cripta, il percorso che porta alla tomba di Padre Pio è fatto da mura mosaicate – con un Cristo bizantino: viso allungato, esile, quasi fragile – che raggiungono l’apoteosi con un tetto in oro per la cappella che ospita le spoglie del santo ma ricorda casa Saddam. In fila tutti fotografano i mosaici, ricordano la visita dell’anno precedente o notano le aggiunte come si fa per i salotti delle vicine, nessuno prega. C’è una Tina Turner bianca che urla: «Silenzio!» di continuo (mi chiedo se ci deve essere una a ricordare di star zitti e pregare). E, infine, la tomba, da faraone, che si vede attraverso uno squarcio nei mosaici, un sarcofago di ferro battuto decorato da grosse pietre preziose, una scelta orientale sembra, va bene per la Puglia, ma la gente rimane disorientata. Però continuano a scattare foto, filmano con il telefonino la parte di sarcofago in vista, perdendo anche quel minimo di spiritualità che abita il luogo, artefatto quanto volete, ma è qui che si dovrebbe raggiungere il culmine, dentro il sarcofago sfarzoso c’è il corpo tanto cercato, mostrato ovunque: ogni singola foto, oggetto, parola conduce qui, in questa cappella che pare creata più per stupire che per raccogliersi in preghiera e invece lascia tutti delusi. Uscendo colgo la delusione di Rosa e Carla (20 e 21 anni), che vengono da Roma, e sembra quella descritta da Dostoevskij davanti al corpo del monaco Zosima nei Fratelli Karamazov.