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 2010  settembre 22 Mercoledì calendario

Joe Sacco, la forza del reportage a fumetti - Nei primi Anni Novanta, quando Joe Sacco tirava giù rapidi schizzi per Palestine, il suo primo reportage disegnato, nella zona araba di Gerusalemme, sbatteva contro i sorrisi a mezza bocca degli inviati dei grandi media e dei funzionari delle organizzazioni internazionali

Joe Sacco, la forza del reportage a fumetti - Nei primi Anni Novanta, quando Joe Sacco tirava giù rapidi schizzi per Palestine, il suo primo reportage disegnato, nella zona araba di Gerusalemme, sbatteva contro i sorrisi a mezza bocca degli inviati dei grandi media e dei funzionari delle organizzazioni internazionali. Un fumetto sulla lotta infinita tra israeliani e palestinesi suonava come uno scherzo. «Ero piuttosto timido, temevo che mi ridessero in faccia ogni volta che raccontavo il mio progetto. E qualcuno lo ha fatto!», racconta l’autore di graphic stories che sarebbe più esatto definire politicamente «coinvolte», piuttosto che impegnate. E molto premiate. Oltre a Palestina. Una nazione occupata, che nel 1996 ha vinto l’American Book Award, ci sono state Goradze. Area protetta e Neven. Una storia da Sarajevo, sul macello di corpi e anime nella ex Jugoslavia. Ora è in uscita in Italia Gaza 1956, edito da Mondadori (pp. 421, e20), come gli altri suoi libri. Sacco recentemente ha anche realizzato The Unwanted (Gli indesiderati) una storia breve lungo le rotte dell’immigrazione clandestina nel Mediterraneo, tra il Nord Africa e l’Italia, toccando Malta, dove lo scrittore è nato cinquant’anni fa. Cresciuto in Australia, si è prima trasferito in America, dove vive, tra un viaggio e l’altro. Ma ha trovato la sua strada nei posti più scomodi del globo. Per raggiungerli e mostrarli nelle sue tavole ha fatto debiti, prima che i libri gli dessero un ritorno economico. Sacco oggi non ha perso quell’aria svagata e un po’ naïve, tra il turista per caso e il reporter idealista. Sulla scena del graphic novel politico è un’eccezione. Si è fatto l’orecchio alle storie nei caffè. I suoi disegni hanno il tratto denso e una pignoleria fotografica per gli ambienti; una semplicità da finto ingenuo per le facce delle persone. «Con i disegni puoi avere l’inquadratura perfetta, come nei migliori scatti fotografici. Hanno un grande potere che va usato con misura», dice. I libri più lunghi, come Gaza 1956, gli richiedono anni di lavoro. Più che ai reportage viene da pensare alla tradizione americana del non fiction novel, di Truman Capote e Hunter S. Thompson. «Thompson mi ha fatto capire come dare sostanza letteraria alle storie reali. Ma devo molto soprattutto a George Orwell, alla sua fermezza morale nel raccontare la guerra civile spagnola e le condizioni dei lavoratori inglesi durante la Grande Depressione, e a Michael Herr, l’autore di Dispacci, sulla guerra nel Vietnam», precisa. Il segreto delle storie di Sacco è l’empatia verso i suoi personaggi, anche nelle situazioni più difficili, anche per le figure più problematiche. Si è mai sentito in pericolo? «Sono stato molto attento, in Bosnia come in Palestina, dove non ci si sentiva mai davvero al sicuro. A Malta, al contrario, non c’era nessun rischio. Ho messo a confronto le storie di immigrati africani e di cittadini maltesi, ho visitato centri di detenzione temporanea, luoghi ruvidi, certo, poi andavo a bere con gli amici e a visitare parenti». È una caratteristica di Sacco, quella di mostrare i retroscena del suo comics journalism: la ricerca delle notizie, i momenti di pausa in un bar, le attese snervanti a un check point. In Gaza 1956 è nella Striscia, prima del ritiro israeliano, a fare domande su due incidenti di cinquant’anni prima nelle città di Khan Younis e Rafah, dove centinaia di civili palestinesi vennero uccisi dai militari di Tsahal. Sembra più un film-inchiesta su memorie scomode che un reportage da un conflitto. «Uno dei punti di forza di un comic book è la facilità con cui il lettore può essere portato indietro nel tempo. È però necessaria una ricerca accurata, dagli oggetti d’uso quotidiano alle foto d’epoca dei campi di rifugiati, per dare consistenza ai dettagli del passato». Ha trovato l’immigrazione clandestina un soggetto più elusivo da raccontare rispetto a conflitti come quelli in Bosnia e Palestina? «Posso capire che gli italiani e i maltesi non si sentano responsabili diretti dei problemi degli immigrati, sia che fuggano da una guerra o da condizioni di vita impossibili. Però l’immigrazione in Europa è una realtà che non scomparirà con i blocchi e i respingimenti, e sarebbe meglio trattare il problema con compassione e con riguardo all’umanità dei migranti». Nei giorni scorsi Sacco è stato al Festivaletteratura di Mantova; dopo vent’anni di guerre, vissute, scritte e disegnate, sentiva il bisogno di una vacanza creativa. «Non abbandonerò i miei personaggi perseguitati, ma ho voglia di sperimentare altre idee. In una storia a cui sto lavorando compaiono i Rolling Stones, ma è una storia atipica, in cui gli Stones non saranno i personaggi principali». Anche quando inquadra il palcoscenico del grande rock, Joe Sacco preferisce spostare i riflettori di lato.