varie, 22 settembre 2010
PROFUMO VIA DA UNICREDIT, ANALISI E COMMENTI
TREMONTI E L’ULTIMA DIFESA -
Tensioni, consiglio straordinario. Esito incerto. Ieri però il presidente di Unicredit Dieter Rampl, che avrebbe ricevuto da soci internazionali, fondazioni e azionisti imprenditori una lettera nella quale si chiedeva una verifica della situazione, invitava a considerare la partita ancora aperta. Rampl rassicurava sulla capacità della banca di resistere agli choc anche più forti. Parole che probabilmente nascono anche dalle preoccupazioni di Bankitalia e ministero dell’Economia, cioè le autorità che vigilano rispettivamente sulle banche e sulle fondazioni. Preoccupazioni che muovono certo nel rispetto dell’autonomia dei soci e del management. Ma che partono da una considerazione principale: Unicredit è la prima banca italiana con asset per circa mille miliardi di euro, anche se la seconda in termini di mercato domestico visto che è la più multinazionale con 10 mila filiali in 22 paesi e «solo» il 45% dei ricavi realizzati in Italia, fra le prime in Europa per attivo (è l’ottavo istituto dell’area euro) e capitalizzazione di Borsa.
Si parla dunque della governance al top di uno dei principali protagonisti economici e finanziari del nostro Paese, di una banca «di sistema» per eccellenza. Che ha visto cambiare in breve tempo l’assetto azionario: ai soci maggiori «storici», le Fondazioni bancarie e il gruppo assicurativo tedesco Allianz, si sono affiancati i soci libici, oggi complessivamente poco sopra il 7,5% del capitale.
Una «scalata» che ha visto il fondo sovrano Lybian investment authority entrare con il 2% (al quale ha poi aggiunto un’altra frazione di capitale) senza che ne venisse informato il consiglio ma con acquisti effettuati attraverso Unicredit. Profumo, che è stato il solo o uno dei pochi a venire a conoscenza dell’operazione ha sempre sostenuto di aver rispettato le regole.
Bankitalia ha però chiesto per lettera il parere ufficiale della banca e la risposta è attesa dal vertice del 30 settembre. L’iniziativa di Via Nazionale evidentemente ha manifesta preoccupazioni di governance, in relazione alle comunicazioni fra amministratore delegato, consiglio e presidente, il tedesco Dieter Rampl. Ma i fatti sembrano anticipare i passi ufficiali. E la preoccupazione prioritaria della banca centrale è rivolta ancora alla governance. Qualsiasi banca, e a maggior ragione Unicredit, non può essere lasciata a soluzioni di governo societario temporanee, a interregni che non definiscano subito e chiaramente deleghe e responsabilità. In poche parole: Bankitalia vuole siano date certezze. La posta in gioco è troppo importante: perché non è solo un problema di stabilità della banca, ma dell’intero sistema bancario italiano.
Ieri mattina Profumo ha partecipato alla riunione a porte chiuse organizzata dall’Aspen Institute. C’era il ministro dell’Economia Giulio Tremonti e molti big della finanza, fra i quali il numero uno di Intesa Sanpaolo Corrado Passera e Giovanni Perissinotto, group ceo di Generali. Il top manager di Unicredit è intervenuto nella seconda sessione con il top manager del Leone e Anna Maria Tarantola, vice direttore generale della Banca d’Italia. Difficile pensare che ieri ci sia stata a una «digressione» sulla situazione dell’istituto di Piazza Cordusio. Ma è anche altrettanto difficile immaginare che il banchiere non abbia letto nella comunicazione di Bankitalia un «faro» sulla governance, un segnale che in Via Nazionale si sia posto il problema degli equilibri di governo societario alla luce di come è stata gestita la comunicazione sugli acquisti dei libici.
Tremonti, che vigila sulle Fondazioni, ha evidentemente le stesse preoccupazioni di sistema. Ed è possibile che anch’egli proprio agli enti possa aver espresso la preoccupazione per una situazione obiettivamente difficile che si potrebbe creare con l’uscita improvvisa del top manager. Va tenuto conto anche che di recente fra il ministero dell’Economia e Unicredit i rapporti si erano stretti maggiormente: Tremonti punta sulla vendita da parte di Piazza Cordusio del Mediocredito centrale alle Poste per costruire la Banca del Mezzogiorno, veicolo voluto per sostenere lo sviluppo imprenditoriale. Un’operazione (che il board di Mcc avrebbe appreso dalla stampa) anch’essa considerata di sistema e avviata con Profumo.
Sergio Bocconi, Corriere della Sera 21/9/2010
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I PASSI FALSI E LE SPALLE VOLTATE -
La lunga stagione di Alessandro Profumo alla guida di Unicredit si conclude oggi, alle sei del pomeriggio, con il consiglio di amministrazione, convocato ieri d’urgenza dal presidente Dieter Rampl, o con la presa d’atto in extremis o con la conta. Nell’aria da qualche tempo, la notizia segna una svolta nella storia bancaria italiana e apre un’incognita sul futuro di Unicredit impegnato nel lancio operativo della nuova formula organizzativa, detta del «bancone» ideata proprio da Profumo.
Profumo è stato amministratore delegato di Unicredit per 15 anni. E per 15 anni ha governato la banca come se fosse una public company. Nella prima parte del suo regno, questa impostazione ha avuto il conforto della Borsa e della politica. I mercati finanziari consideravano Profumo un good will, un robusto avviamento positivo. Non a caso le fondazioni bancarie di Verona, Torino, Treviso e Bologna conferirono volentieri le loro casse di risparmio all’allora Credito italiano. E la politica, che identificava il progresso con il modello anglosassone, vedeva il futuro in questo giovane che si era fatto da sé e si era irrobustito alla McKinsey, mentre, sospinta dalla cultura liberista, bollava le fondazioni come residui del passato da sterilizzare. Nella seconda fase, invece, i risultati sono stati più altalenanti. La politica ha preso le distanze dal modello anglosassone e i derivati su cui erano state costruite parte delle passate fortune sono stati messi all’indice, ancorché più a parole che nei fatti. Ma soprattutto l’amministratore delegato ha avuto bisogno delle fondazioni per salvare Unicredit dal tracollo del dopo Lehman. I numeri di Unicredit non erano da fallimento, ma quando il panico dilagava non furono i mercati a salvare Profumo, ma le fondazioni e le loro buone relazioni. È in quel momento che il modello degli «imperatori delegati» ha cominciato a venir meno. E con esso, gradualmente, la fiducia dei principali azionisti. Che, avendo pagato, reclamavano rendimenti. Gli equivoci sull’ingresso del fondo sovrano libico sono stati la goccia che ha fatto traboccare il vaso delle incomprensioni e dei dissensi.
Certo, negli ultimi tempi, non è mancata a Profumo la simpatia di uomini potenti: esplicita nel caso del presidente delle Generali, Cesare Geronzi, che ha garantito sulla buona qualità dell’investitore libico; riservata nel caso del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, preoccupato per i possibili danni d’immagine internazionali e, giustamente, per le modalità assai brusche con le quali avviene il cambio di gestione. Ma quanto potevano pesare i sostegni esterni in un consiglio di amministrazione chiamato ad assumersi in proprio la responsabilità delle decisioni e certo non immemore dei fieri contrasti che con il ministro erano esplosi sui Tremonti bond e con Geronzi si erano manifestati sulla conduzione di Mediobanca?
Nell’arco del quindicennio, Profumo ha dato a Unicredit un posizionamento lontano dalla politica. È stato uno dei suoi molti meriti. Per esempio, non ha partecipato alle operazioni Telecom e Alitalia. Non è entrato nell’editoria. E ha dato un’apertura multinazionale rara in un sistema delle imprese spesso molto provinciale. Come tutti quanti esercitano la responsabilità, ha fatto convivere finanza e potere, puntellato anche soggetti in difficoltà assai diversi da lui, come, da ultimo, il gruppo Ligresti. E ha anche commesso errori: l’acquisto di Capitalia, per esempio, del quale si è pubblicamente e coraggiosamente pentito e che lo stesso venditore Geronzi riconobbe essere non così brillante come diceva il suo ex braccio destro, Matteo Arpe. Ma se chi oggi critica Profumo fa leva sui segni meno — inevitabili in tanto tempo — per dimenticare i grandi segni più, quella di oggi potrebbe essere una cattiva giornata. Se invece esercita i suoi poteri in trasparenza e sviluppa il buono che c’è, scegliendo rapidamente un successore all’altezza del predecessore, sarà un cambio della guardia sostenibile. Certo, la rumorosa ripresa della politica nelle fondazioni autorizza più di un timore e non appare agli occhi dei mercati internazionali, così diffidenti nei nostri confronti, una delle pagine migliori della più recente storia bancaria.
Massimo Mucchetti, Corriere della Sera 21/9/2010
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QUEL BANCHIERE CHE PIACE A SINISTRA -
Forse non tutte le operazioni di ristrutturazione di Alessandro Profumo sono perfettamente riuscite, forse qualche socio ha provato nel tempo un qualche scoramento rispetto alla tanto conclamata operazione di creazione di valore, comunque l’Italia deve essere grata a un manager che con le acquisizioni tedesche e nell’Est europeo e con la fusione con Capitalia, al di là delle convenienze economiche della banca da lui guidata, ha fatto operazioni di rilevanza per il sistema Paese.
Detto questo c’è un elemento che colpisce in certe argomentazioni profumesche: la scarsa corrispondenza alla concretezza dei processi. Ora sì sa che nel gestire un potere così politico come quello di un grande gruppo bancario, il quale certamente ha bisogno di supermanagerialità, ma anche di intervento sui grandi processi in atto, si debba usare anche l’arma della retorica. Si comprende, perciò, che Profumo, proprio mentre era in fila per votare per qualche primaria dell’Ulivo, si ergesse a icona dell’antipolitica. Al di là della propaganda, il suo saldo legame con la «politica» era evidente: sia nella guerra alla Mediobanca di Vincenzo Maranghi sia nel contrasto ai tentativi prima di Vincenzo Visco poi di Giulio Tremonti di diminuire il ruolo delle fondazioni sul sistema bancario, Profumo seguiva l’impostazione bancocentrica di Romano Prodi, un’impostazione sostenuta da quel che restava dell’establishment economico-finanziario italiano.
Il fatto è che quando il blocco politico-economico prodiano crolla nel 2008, alcuni protagonisti del mondo bancario ne prendono atto. Pur mantenendo tutte le riserve sulla politica berlusconiana e continuando a impegnarsi in schermaglie su questo o quel fronte, tipo la resistenza all’assunzione di ruoli di leadership da parte di Domenico Siniscalco nel gruppo Intesa, protagonisti della finanza come Corrado Passera, Giovanni Bazoli e Giuseppe Guzzetti cambiano atteggiamenti e propaganda, e trovano intese con un Tremonti anche lui attento ai compromessi necessari. Profumo, che pure nei comportamenti specifici appare molto disponibile a manovrare, mantiene invece in vita un apparato retorico che non sta più molto in piedi. Affossa i Tremonti bond, finendo per far infuriare le fondazioni costrette a sottoscrivere forti aumenti di capitale, e intanto se lo Stato italiano resta fuori da piazza Cordusio, non lo restano questo o quel Land, questa o quella Regione, lo Stato libico. Oltre un certo grado le parole diventano pietre e ti portano a fondo, e se non sei in grado di dominare la tua retorica e ti fai dominare da questa, ci finisci più rapidamente.
Nessuno nega lo standing internazionale di Profumo e alcune difficoltà nel rimpiazzarlo, ma il suo affrontare le questioni concrete (il peso di tedeschi ingombranti come la Munich Re, il rapporto con le fondazioni post vittoria leghista, l’entrata dei libici in modo così massiccio nel capitale sociale) solo con la retorica del manager libero e bello, era assai difficile, praticamente impossibile. Alla fine il più leale interlocutore di Profumo è rimasto il ministro dell’Economia, mosso da visioni generali e non da pure simpatie personali. E chissà se constatando questa situazione, assistendo scoraggiato alle difficoltà del ministero di via XX Settembre di assicurargli il necessario appoggio, l’amministratore delegato uscente di Unicredit, non abbia avuto più di qualche dubbio sulla maledetta retorica che lo aveva spinto, qualche tempo fa, a non utilizzare i Tremonti bond.
Lodovico Festa, il Giornale 22/9/2010
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IL BANCHIERE E IL COLONNELLO -
Eric Daniels, amministratore delegato del Lloyds Banking Group, banca numero 42 al mondo, ha annunciato le sue dimissioni. Ma lascerà la poltrona tra un anno, nel frattempo verrà scelto il successore. Daniels era sotto attacco, con la sconfitta di Gordon Brown aveva perso protezioni politiche e la Banca d’Inghilterra lo voleva fuori, scrive il Wall Street Journal. Per i giornali è un’importante notizia economica e finanziaria. Così funziona Londra. Sempre ieri ha gettato la spugna Alessandro Profumo, ad di Unicredit, banca numero 102 nella lista di Fortune, dopo mesi di tiro incrociato e un’accelerazione settembrina. Così funziona a Milano. Ma qui dalla cronaca entriamo direttamente nell’epos tragico. Chi l’ha fatto fuori? La Lega, le fondazioni, gli azionisti tedeschi, magari complici gli americani (con il fondo BlackRock), le eterne beghe romane, il governo manovrando Gheddafi?
Profumo, uno dei più brillanti banchieri della sua generazione, l’alfiere del mercato che sfida i poteri forti, la politica, l’establishment mediatico-finanziario. Non c’è dubbio, ha lanciato i suoi dadi con audacia, seppur non sempre con sagacia. Ma quel che si legge su autorevoli giornali, alla vigilia del lungo addio, alimenta una leggenda. “Sta combattendo una guerra di indipendenza – secondo Orazio Carabini sul Sole 24 Ore – Se perde, questo conflitto potrebbe avere un esito preoccupante, con la politica a tentare subito di riconquistare zone franche di potere nel sistema bancario italiano”. Per Massimo Giannini di Repubblica, Profumo è “l’ultimo dei mohicani” vittima di “un fuoco amico e trasversale di grandi azionisti della banca”. I “congiurati” sono: “Il numero uno della Fondazione Caritorino, Fabrizio Palenzona, il numero uno della Fondazione Cariverona, Paolo Biasi, il presidente di Unicredit Dieter Rampl, i rappresentanti di Allianz e, probabilmente, di Mediobanca”. Insomma, non rimane più nessuno. Anzi, qualcuno c’è ancora e Giannini ci arriva con sapiente climax: “Palenzona è la pedina strategica nella filiera Luigi Bisignani-Cesare Geronzi-Gianni Letta, che da mesi si muove per blindare il sistema dei poteri economici e finanziari attorno al presidente del Consiglio. Biasi è il nuovo pivot creditizio della Lega, gli uomini di Allianz e Mediobanca rispondono, probabilmente, a Geronzi”.
La ricostruzione, che ha il vantaggio di evitare metafisiche battaglie tra mercato e politica, sfugge a un quesito: e i libici? Sono stati dei “sicari”, degli utili idioti, degli avventuristi che scalano Unicredit alla cieca? Erano diventati strumenti ciechi d’occhiuta rapina, docili e succubi in mano all’uomo che li usava perché voleva farsi re, rispondono i nemici di Profumo. Ma alla fine non l’hanno nemmeno difeso.
I finanzieri del Colonnello arrivano in Unicredit attraverso Capitalia, in quel primo ottobre 2007. Nella banca romana sono stati “i migliori soci che io abbia avuto”, ha dichiarato Geronzi il 25 agosto al Meeting di Cl a Rimini. Erano entrati con il 5 per cento dopo un incontro tra lo stesso banchiere e Gheddafi nel 1997. Con la fusione la quota scende. Quando, poi, nell’autunno 2008, Profumo decide di lanciare un aumento di capitale per rafforzare Unicredit, duramente colpita dalla speculazione e dalle sue debolezze interne, i libici si fanno avanti mentre la Fondazione Cariverona si tira indietro. Dunque, se di conflitto tra padani e arabi vogliamo parlare, allora bisogna risalire almeno a due anni fa. Non ha niente a che fare con gli ultimi acquisti, dei quali, in ogni caso, il presidente Rampl era informato dagli stessi acquirenti e dal fatto che, per salire dal 5 al 7 per cento, una parte è passata attraverso i broker della stessa banca. Tripoli, del resto, non entra alla chetichella nel capitale di banche e industrie strategiche. Tripoli dialoga con Roma. Da un secolo. Certamente dall’operazione Fiat del 1976. Tanto più oggi che il riciclaggio dei petrodollari nel sistema economico italiano è una operazione dai chiari risvolti geopolitici e di sicurezza. Altrimenti perché gli americani drizzerebbero tanto le antenne?
Che la Lega sia contraria, che Bossi voglia le banche, che Flavio Tosi sindaco di Verona guidi la riscossa in Unicredit come una nuova Lepanto, è evidente. Ma con quale risultato? Le fondazioni sono già molto esposte ed è difficile che possano aumentare il loro peso. Sono irritate, e giustamente, perché i loro investimenti non rendono più come un tempo. Nel 2007 la banca aveva utili per 6,5 miliardi, l’anno scorso ha chiuso a 1,7 e il primo semestre 2010 registra 669 milioni. Mentre le concorrenti, colpite duramente dalla crisi, sono tornate a macinare profitti. Non solo. I prossimi anni saranno magri. Per aumentare il capitale le banche hanno solo due strade: non distribuire i dividendi e aprirsi a nuovi soci. Forse faranno un po’ dell’uno un po’ dell’altro, riducendo così il peso di questi ircocervi inventati da Amato e Ciampi per non privatizzare pienamente il sistema. Cariverona si è ritirata da sola sotto quota 5 per cento. Quanto a Torino, impiega già un terzo delle proprie risorse in Unicredit, quota ai limiti della legge. Dunque, in che modo le due nemiche di Profumo potranno ottenere più potere dal suo successore?
Stefano Cingolani, Il Foglio 22/9/2010
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LA DURA VITA DEL BANCHIERE LIBERAL -
Dura la vita dei banchieri liberal, come mostra il caso Profumo. Ma non tutti i banchieri liberal sono uguali. Raffaele Mattioli, che ho avuto modo di conoscere molto di più che Enrico Cuccia, era ben diverso dallo zar di Mediobanca, perché conosceva e gestiva la Comit in rapporto alla struttura economica, a differenza di Cuccia che del mondo delle banche conosceva soprattutto gli intrecci finanziari e non l’economia reale. Comunque Mattioli – di cui domenica scorsa ha scritto Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera, prendendo spunto dal “Profilo” che del banchiere fece il suo collaboratore, Giovanni Malagodi – era liberale nel senso filosofico di questo termine che, fra l’altro, comporta una concezione non tecnocratica ma democratica della cosa pubblica. Ma non era, in economia, un liberale alla Malagodi e neppure alla Einaudi. In questo la sua concezione economica era più simile a quella liberalsocialista di Attilio Cabiati, suo maestro, che collaborò con Luigi Einaudi a Critica sociale. Einaudi era, all’epoca di quella collaborazione, già liberale, ma simpatizzava per il riformismo di Filippo Turati e per i sindacalisti riformisti. Cabiati aveva, per quelli di Critica sociale, non solo simpatia, ma anche più di una affinità. E non a caso fu lui il maestro di Carlo Rosselli, suo assistente all’Università di Genova.
Mi sono soffermato su questo punto per chiarire quale fosse l’ideologia politica ed economica di Mattioli, collaboratore bensì di Alberto Beneduce ma a lui non del tutto affine. Infatti Beneduce era un socialista riformista di indirizzo dirigista e con una concezione tecnocratica. Mattioli, invece, considerava l’intervento pubblico nell’economia con un ruolo sussidiario al mercato. Ma nella crisi successiva agli anni Trenta, che non derivava dalla politica di rafforzamento della lira, ma da fattori internazionali e da errori del sistema bancario italiano, queste differenze contavano poco. In Italia c’era un solo gruppo di esperti capace di affrontare con successo questa crisi, quello di Beneduce, che annoverava personaggi come Donato Menichella e Mattioli e poi, in seguito, annoverò Pasquale Saraceno e anche Sergio Paronetto.
Tornando a Mattioli, il comunismo gli era allergico. Era amico di Antonio Gramsci, di cui finanziò la cura in sanatorio e che aveva aiutato, quando era in carcere, perché Gramsci era un comunista trotzkista, all’apposto di Togliatti, stalinista. Mussolini si fidò di Mattioli, come si fidava di Beneduce, perché per lui quelli erano i veri economisti ed esperti di finanza. E perché sapeva che, essendo costoro degli antifascisti, non avrebbero fatto combutta con i grandi industriali fascisti, da cui non voleva essere intrappolato. Mattioli era innanzitutto un gentiluomo del sud, cioè un grande gentiluomo. A ciò univa una raffinata cultura umanistica e un sottile senso dell’umorismo, cosa che di solito manca ai banchieri. Certamente egli era a favore del centro-sinistra, mi riferisco a quello inaugurato con la Nota aggiuntiva al Bilancio di Ugo La Malfa. E la lettera che scrisse a Togliatti non mirava a realizzare quell’ibrido catto-comunista di solidarietà nazionale che poi piacque a Moro, a Berlinguer, allo stesso Cuccia. Mirava a indurlo a non fare una opposizione distruttiva. Non si attribuisca dunque a Mattioli ciò che fu di Cuccia. Per non parlare di Alessandro Profumo.
Francesco Forte, Il Foglio 22/9/2010
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CHI HA PAURA DI UNA BANCA AUTONOMA - Ogni impresa ha diritto a cambiare il proprio management, in qualunque momento. Agli azionisti spetta la nomina e l’allontanamento dei vertici operativi. È, nel mercato, il loro potere centrale. Questa semplice regola del capitalismo, in cui questo giornale crede con convinzione, deve però rispondere sempre a una logica razionale. Perché, sennò, il mercato ha diritto a mostrarsi scettico. Quello stesso scetticismo che, oggi, circonda l’operazione finalizzata all’allontanamento di Alessandro Profumo da UniCredit, che il ministro Tremonti, icasticamente, ha definito «maldestra». La prima zona d’ombra del Blitzkrieg teutonico-padano non è costituita dalla fretta, ma dalla furia. In queste settimane abbiamo raccontato il logoramento del rapporto fra Profumo e gli azionisti, in primo luogo le fondazioni italiane. E abbiamo fatto carico al manager delle sue responsabilità. C’è, però, qualcosa che stride: lo strappo violento che gli azionisti tedeschi e italiani hanno scientificamente prodotto nelle ultime ore sono un cattivo esempio di governance. Non è giustificabile che una grande banca di sistema, la più internazionalizzata del paese, divenga all’improvviso un corpo privo di testa strategica e operativa. Si tratta di un organismo complesso, che ogni giorno fornisce credito al sistema industriale italiano, in cui sono in corso importanti progetti di medio periodo, come la riorganizzazione interna che dovrebbe portare a Banca Unica. Un progetto che Profumo disegnava chiavi in mano, e che rischia ora di restare acefalo. Ribadito ancora il diritto degli azionisti di cambiare l’amministratore delegato perché non progettare un percorso per consentire a Profumo di ultimare i dossier aperti e per portare a un contemporaneo avvicendamento con un manager di calibro internazionale? Perché indulgere in una guerra lampo che potrebbe portare a un pericoloso vuoto di potere?
Perfino le banche americane, che sono state semitravolte dall’ultima crisi finanziaria, hanno sempre cambiato il Ceo uscente con quello nuovo. Aborrendo la vacatio. Anche perché il diritto bancario pone più di una questione sulla piena legittimità e sul perfetto funzionamento delle deleghe, qualora queste venissero trasferite al presidente della banca, come potrebbe capitare in questo caso. A questo punto, per tutte queste regioni regolamentari e di sostanza, è bene che la Banca d’Italia accenda più di un faro di vigilanza su cosa sta capitando in Piazza Cordusio. Una vicenda segnata da troppe opacità: prova ne è la preoccupazione manifestata anche, all’interno del perimetro governativo, da un Tremonti a dir poco scettico e da una maggioranza divisa. Di certo, lascia perplessi che una delle principali infrastrutture finanziarie del paese, perché questo è una grande banca come UniCredit, possa passare sotto il controllo del capitalismo tedesco o che, restando nella ristretta cinta daziaria italiana, possa diventare oggetto degli appetiti della politica.
E che una di queste opzioni, o il combinato disposto di entrambe, si possa inverare proprio adesso, mentre il paese si trova alla vigilia di possibili elezioni. Al di là della valutazione sull’operato di Alessandro Profumo - che ci sarà ora tempo per fare - e al di là di come questi regolerà nel dettaglio il suo rapporto con gli azionisti che lo criticano, va detto che questo passaggio complicato in UniCredit poteva essere una storia di ordinario capitalismo, sia pure "all’italiana". E, invece, così non è stato. C’è una cosa che l’economia e la politica, o per meglio dire l’intera comunità italiana, hanno fatto bene: l’aggregazione delle banche negli anni Novanta e la loro conduzione negli ultimi dieci anni.
Tutti, in Italia e all’estero, hanno elogiato i nostri istituti di credito. Che, infatti, hanno sofferto meno di altri le patologie dell’ingegneria finanziaria e hanno sostenuto in misura più robusta e convinta il sistema produttivo. L’auspicio è che questa peculiarità strutturale non si smarrisca, che la politica resti fuori dallo sportello e che non si apra una stagione cruenta, in cui i manager indipendenti in grado di dire dei no anche al "territorio", nobile parola che talvolta è sinonimo ipocrita di clientela, divengano prede da impallinare e da sostituire, in furiosa velocità, con più fedeli cani da riporto.
Stupisce infine, in quella che è stata una operazione dura e difficile per tutti, la scarsa visibilità del premier Berlusconi, che pure avrebbe potuto palesare una sua "moral suasion" su tutti, richiamando ciascuno alla sua responsabilità. E’ come se la maggioranza da raggranellare uno per uno alla Camera conti più della gigantesca UniCredit nel corso della gigantesca crisi del XXI secolo. E’ una storia di affari e politica di cui l’uscita di Alessandro Profumo segna forse l’inizio, non la fine.
Paolo Bricco, Il Sole 24 Ore 22/9/2010
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PAGA L’ATTEGGIAMENTO DA CEO IMPRENDITORE - «Vittima di se stesso? Direi vittima della ripetuta minaccia di dimettersi per indurre il board ad adottare la sua strategia». In inglese si chiama brinkmanship e Bill Emmott, 54 anni, storico ex direttore dell’Economist, oggi libero pensatore sovente su uomini e cose italiane, ha pochi dubbi: Alessandro Profumo sta pagando il prezzo di una strategia ad alto rischio buona, forse, in tempi di boom, azzardata in anni di crisi.
Non può essere questa l’eredità di Profumo ?
Visto dall’estero il suo grande merito è essere stato il primo ceo capace di creare in Italia un grande banca internazionale. Sfruttando le opportunità della riforma Amato ha consolidato un forte istituto italiano portandolo ad essere forza europea capace di servire il mercato europeo con una strategia europea.
Che non è poco. Eppure gli è stata contestata eccessiva autonomia, è considerato un top manager che ha superato i limiti del proprio mandato. È d’accordo?
È stato visto, si è anche visto, come un ceo-imprenditore, un uomo che ha sviluppato un banca di cui si percepiva anche come creatore. Il ceo-imprenditore diviene figura rischiosa quando il gruppo che guida si espande e si diversifica perchè tende a mettere l’accento sull’approccio imprenditoriale di se stesso. In questo contesto, Profumo, è andato oltre quelli che doveva considerare i propri limiti. Come? Minacciando, in almeno due occasioni, di dimettersi per forzare la mano del board. Ha creato una situazione destabilizzante, soprattutto, per una banca che deve salvaguardare il rapporto di fiducia con clienti e mercati.
Comportamenti del genere che destini avrebbero avuto nel banking britannico?
Dinamiche di questo tipo non avrebbero potuto trascinarsi a lungo in Gran Bretagna, tutto sarebbe finito molto prima. L’azionariato diffuso del sistema bancario inglese (al netto di ogni considerazione sulla temporanea nazionalizzazione prodotta dal credit crunch, ndr) e delle società inglesi, in generale, non prevede che il ceo agisca da imprenditore, né che possa sfidare pubblicamente gli shareholders. Lo ripeto: le cose sarebbero finite diversamente molto prima. Anche se in tempi di grande boom molti ceo di grandi banche sono diventati straordinariamente potenti anche a Londra. Basti pensare a Fred Goodwin di Rbs e alla disgraziata acqusizione di Abn Amro. Eccezioni a parte, è il modello di governance e l’azionariato diffuso che consentono di esercitare più controllo sul ceo.
L’accusa ultima che gli è stata mossa riguarda aver favorito l’acquisizione di ulteriori quote di UniCredit da parte libica, il sospetto è, in realtà, che la politica voglia dettare le condizioni...
Profumo ha tentato prima con Abu Dhabi e poi con Tripoli di allargare la base azionaria per limitare l’influenza politica di azionisti come le Fondazioni o la stessa Mediobanca. Credo che nel considerare la situazione di oggi si debba valutare il peso avuto dall’operazione su Capitalia, una scommessa che Profumo ha giocato in tempi di boom seguiti, però, dal crollo di Lehman e dalla recessione. Per lui gestire la crisi è stato, così, più difficile perché le spinte politiche si sono rafforzate. È presto per dire che abbiano vinto quelle logiche, ma è evidente che Profumo ha perso.
Abbattuto, quindi, dall’ultima spallata del credit crunch?
Non so se sia l’ultima, ma Profumo è senz’altro vittima della crisi. L’acquisizione di Hvb prima e di Capitalia poi hanno visto il ceo di Unicredit muoversi con discrete dosi di azzardo. UniCredit ha resistito bene al credit crunch, ha dimostrato di potere reggere senza interventi pubblici. Ma la posizione personale di Profumo è stata fortemente indebolita.
Che profilo immagina per la successione?
Non voglio fare previsioni su quale sarà la strategia del successore, ma credo che sarà un manager nel solco della tradizione. Un amministratore delegato e non più un ceo-imprenditore, figura che appare ormai inaccettabile. Alessandro Profumo deve però essere ricordato con gratitudine dal mondo bancario e da quello industriale perché ha creato una vera, forte banca internazionale. Resta da vedere se chi prenderà il suo posto continuerà anche il suo lavoro, rinforzando questa strategia.
Leonardo Maisano, Il Sole 24 Ore 22/9/2010
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L’eredità di Alessandro Profumo «avrebbe potuto trasformare il sistema bancario italiano e invece sarà quella che ha fallito nella costruzione di un edificio più duraturo». Lo scriveva ieri il Financial Times in una Lex Column - lo spazio del quotidiano brittanico per i commenti - dedicata appunto alla vicenda Unicredit.
Libero 23/9/2010
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Aveva detto 60 Invece lascia a 53 anni
«Lascio tutto a 60 anni». Quella di Alessandro Profumo era più di una promessa. L’ex ceo di Unicredit lo diceva ripetuta-mente da tempo, nelle interviste e parlando in pubblico. Si era posto un traguardo, 60 anni appunto, oltre il quale non avrebbe più mantenuto cariche di prima linea. La guerra a piazza Cordusio e la rivolta dei soci, però, lo hanno costretto a correggere in corsa i suoi piani. A 53 anni compiuti, Profumo infatti va in “pensione anticipata” con sette anni in meno rispetto alla tabella di marcia iniziale. Un’idea, quella del top banker, che addirittura aveva preso la forma di un impegno pubblico con la sottoscrizione del «Pattogenerazio- nale 60», iniziativa di Luca Josi alla quale l’ex McKinsey boy aveva aderito sin da subito, nel 2006 (nella lista online su www.pattogenerazionale.it è il numero 2).
Cosa farà in sicuro non è ancora chiaro. Di sicuro per un an- no non potrà rientrare nel mondo della finanza. Dei 40 milioni di euro di “liquidazione”, 1,5 vengono versati per il patto di non concorrenza [due in beneficenza secondo la moglie agg. da lastampa.it]. Ieri, nel day-after, Alessandro il Grande - come lo definiva la stampa estera - ha trascorso parte della giornata nella sua abitazione in via Borgonuovo, nell’elegante quartiere Brera. Solo nel pomeriggio il banchiere è riapparso in pubblico, tra le vie del centro di Milano. E la mise è quella di ordinanza: abito blu, camicia azzurra, scarpe nere. Tutto come sempre, se non fosse per un particolare: niente cravatta.
Libero 23/9/2010
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Profumo è stato cacciato perché non faceva più utili -
La cacciata di Profumo da Unicredit è molto simile a quella che riguarderà Sergio Marchionne da parte della Fiat. Attenzione, non stiamo dando una notizia. Stiamo seguendo un percorso banalmente logico. Un manager non è il proprietario dell’azienda in cui lavora. E gli azionisti, prima o poi, per un motivo o per l’altro,si scocciano dei propri dirigenti, soprattutto se di vertice. Ovviamente, anche i dirigenti fanno della loro mobilità un mantra. Pensate un po’: il diritto del lavoro italiano, che blinda il lavoro e tutela il dipendente come parte sempre e comunque debole, concede la facoltà ai «padroni » di licenziare i propri dirigenti. Insomma, anche la tradizione giuslavorista italiana, non esattamente concepita con i canoni del liberismo, tiene in giusto conto la prerogativa dei proprietari di liquidare i propri vertici.
Delle due l’una, dunque. Profumo e Marchionne hanno una strada segnata: o diventano proprietari delle aziende in cui lavorano, o inevitabilmente rischiano di lasciarci le penne (manageriali si intende). Quando si parla di indipendenza dei manager e quando si alimenta il falso mito dell’indipendenza di Profumo, conviene ragionare con i termini della logica e non della passione. Il lavoro di Profumo è stato ben retribuito dai propri azionisti: tra liquidazione e stipendi si è portato a casa un centinaio di milioni di euro. Una tale colossale cifra non è dovuta all’indipendenza di Profumo. Ma al contrario, si giustifica eticamente solo dalla perfetta dipendenza del manager al mandato che gli hanno dato i suoi azionisti.
Profumo ha guadagnato tanto perché non era indipendente dai voleri di chi lo pagava. Profumo è diventato milionario perché non era indipendente dalla volontà dei suoi azionisti di riempire i propri conti correnti di milioni di euro ogni anno. Sì, quella «disgustosa merce» che si chiama denaro è ciò per cui ha lavorato Profumo. Il resto sono balle ipocrite. Fino a quando i soci di Unicredit si sono visti recapitare 7 miliardi di euro l’anno (una manovra finanziaria) ovviamente non aprivano bocca: anzi la determinazione del grande capo veniva più che tollerata.
Le cose cambiano quando Profumo invece di remunerare i propri soci, chiede loro dieci miliardi di euro. Profumo ha resistito a tante crisi; in 15 anni non ha mai chiuso un trimestre in rosso, ma quando la benzina è finita i suoi lo hanno liquidato. Senza tanti complimenti. Fa parte del gioco. Quaranta milioni valgono bene un preavviso.
Alla balla dell’indipendenza, se ne associa un’altra. Più subdola, più minacciosa. L’influenza determinante della politica. Non cadiamo dal pero: una banca con 10mila sportelli, 160mila dipendenti, 1.000 miliardi di attivi in bilancio non vive mica sulla luna. È gestita da un establishment e ha rapporti continui e consustanziali con il potere. Ma le ricostruzioni eccessivamente dietrologiche dell’accaduto fanno ridere. Sono evidentemente figlie di un assurdo «pregiudizio indipendentista », che postula: se un manager è bravo, lo è perché indipendente, e dunque quando viene cacciato è perchè si vuole piegare la sua indipendenza. L’estrema conseguenza di questa visione del mondo, è evidentemente una società di caste: in cui nessuno è dipendente dagli altri, tutti sono sostanzialmente irresponsabili e si risponde solo alla roulette della propria classe sociale di nascita.
In questo filo di ragionamento, i responsabili del licenziamento dell’indipendente Profumo sono i poteri forti, della politica e della finanza. Bella storia davvero. I più bravi a raccontarla sono i giornalisti (loro sì indipendenti) della Repubblica .
Che prima hanno candidato l’indipendente a diventare dipendente e guidare il Pd e poi ci spiegano che Profumo è stato fatto fuori da Berlusconi e da Cesare Geronzi (che non si capisce in virtù di quale potere, oggi deciderebbe tutto). Ma come? Nel cda di ieri l’unico consigliere a voler mantenere Profumo al suo posto non è stato lo stesso Ligresti che la Repubblica ci ha sempre descritto come sommamente berlusconiano? Ma come? Non è stato un ministro di peso del berlusconismo, come Giulio Tremonti, a far intendere il suo apprezzamento per Profumo e il rischio del buco che avrebbe lasciato? Ma come? I soci tedeschi di Unicredit non erano tra i più accesi a volere estromettere Profumo? Anche loro condizionati da Berlusconi? Repubblica dimentica che Berlusconi dovrebbe essere la barzelletta d’Europa. Evidentemente in tutti i campi, tranne che in casa dei consiglieri tedeschi di Unicredit. Non diciamo scemenze.
Se una partita è stata giocata sul futuro della prima banca italiana, a giocarla non è stato certamente il premier. Ci crogioliamo in questa favolosa dimensione dietrologica, quasi psicanalitica, per cui nulla è come appare. Mentre quel che appare è semplice: Profumo non portava a casa più i risultati di un tempo. Ha cambiato nel giro di pochi anni l’organizzazione interna (il che vuol dire posti di lavoro, manager, poteri e interessi) senza grandi discussioni con nessuno dei suoi azionisti. Dopo quindici anni alcuni suoi rapporti personali con i soci e i manager (che ha cambiato alla velocità della luce) si sono deteriorati. Una combinazione astrale perfetta, affinché quei bricconi delle Fondazioni (in effetti un giro di burocrati che tendono a perpetuarsi senza grandi confronti sul merito delle loro azioni), dei soci privati italiani e di quelli stranieri si coalizzassero per cacciare il manager che li ha resi ricchi. Si poteva fare meglio? Sì. Certo. Unicredit è una banca che non può essere governata con il pilota automatico. Ma da qui a costruire questo psicodramma collettivo su chi ha veramente cacciato Profumo e sui motivi reconditi di tutto ciò, ce ne passa. Ciò non toglie che ora i grandi poteri della finanza italiana dovranno trovare un nuovo assetto che faccia i conti con il venir meno di un peso massimo come Profumo.
Nicola Porro, il Giornale 23/9/2010
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PROFUMO DI GOLPE -
Ora tutti esibiscono con orgoglio la sua testa. Il sindaco leghista di Verona, Flavio Tosi, dice che il banchiere Alessandro Profumo è stato cacciato perché si era dimostrato "un custode infedele". Dieter Rampl, il presidente tedesco di Unicredit, motiva il siluramento del manager che aveva costruito la banca in 16 anni di lavoro con la mancata trasparenza. Non lo ha informato a dovere, sostiene a dispetto delle smentite che arrivano da Tripoli, del peso sempre più preponderante degli azionisti libici. Paolo Biasi e Fabrizio Palenzona, gli uomini delle Fondazioni bancarie che in passato erano stati i grandi elettori di Profumo, lamentano di essere i più delusi: il banchiere aveva perso il tocco magico e i conti dell’Unicredit non andavano più bene. Come sempre, il più astuto è Silvio Berlusconi. Il governo ha salvato la faccia grazie al ministro Giulio Tremonti, che all’ultimo minuto ha tentato di rimandare il siluramento. Allo stesso tempo, però, da palazzo Chigi filtrano i primi messaggi: niente sarà più lo stesso. E chi non si piegherà ai disegni del premier sarà fuori. Che riguardino Unicredit o le altre roccaforti del potere economico, dalle Generali a Mediobanca.
Minacciose a questo riguardo le dichiarazioni di Umberto Bossi all’indomani del licenziamento di Profumo: "Le fondazioni ci difendano dai tedeschi". Addirittura da loro. Per comprendere i rischi del golpe in Unicredit si può partire dall’analisi di Bruno Tabacci, uno dei politici che conosce meglio le cose dell’alta finanza. Ammette che dopo tanti anni, il ciclo di Profumo nell’Unicredit poteva volgere naturalmente alla fine: "Forse il meglio di sé l’aveva dato. Sono però preoccupato: il modo in cui è stato cacciato ci riporta indietro di anni", dice a "L’espresso". Tabacci mette in fila i fatti: "Non si può accusare un manager, come fa la Lega Nord, di non aver arginato gli acquisti delle autorità libiche: se creano problemi, tocca al governo muoversi. Gheddafi non può essere il miglior amico dell’Italia nei giorni pari e il peggior nemico nei giorni dispari". Per Tabacci la verità è una sola: "Profumo in alcune sue scelte ha dimostrato di avere una certa autonomia di pensiero. I guai sono iniziati quando si è ritrovato costretto a cedere alle pressioni".
La parabola di Profumo, 53 anni, può essere raccontata proprio così: la storia di un outsider di talento che, all’inizio, prova a ribaltare le regole del gioco, poi finisce per bruciarsi. E i retroscena della sua caduta, oggi, non possono essere spiegati se non partendo dal racconto di un’ascesa durante la quale ha ottenuto il consenso e il sostegno degli stessi uomini che nei giorni scorsi hanno deciso di scaricarlo: Rampl in primis, e poi Paolo Biasi e Fabrizio Palenzona, secondo una ricostruzione che lui stesso ha accreditato parlando con chi gli è vicino. Ma anche i privati Luigi Maramotti e Carlo Pesenti.
A differenza di quanto in passato accadeva di norma e, in maniera meno esplicita, continua ad accadere oggi, la carriera di Profumo non nasce nelle segreterie dei partiti. E, almeno nei primi anni, non fonda la sua scalata al vertice del potere sui rapporti di scambio con i potenti di turno, la chiave del successo del più longevo fra i grandi banchieri italiani, Cesare Geronzi.
Profumo parte dal piccolo Banco Lariano. Ci rimane dieci anni, poi passa alla McKinsey, una società di consulenza che si ritrova spesso a funzionare da ufficio di collocamento per top manager dallo stipendio milionario. E infatti il colpo riesce anche a lui. Nel 1991 Profumo diventa direttore della Ras, grande azionista del Credit, in quegli anni la bella addormentata del sistema creditizio nazionale. Nel 1994 trasloca proprio nella storica banca con sede a Genova e cuore a Milano. Sale tutti i gradini e nel 1998, diventa il numero uno.
In quegli anni inizia la sua partita da outsider. Il bancario diventato banchiere riesce a realizzare un piano di sviluppo che altri, più scafati, avevano dovuto abbandonare. Il mondo nel quale fa breccia è quello, ambiguo e politicizzato, delle Fondazioni bancarie. Profumo mette insieme due colossi del Nord, la Cassa di Risparmio di Torino e quella di Verona, trasformando il vecchio Credit in Unicredit. I padroni delle due Fondazioni, rispettivamente Palenzona e Biasi, gli danno corda. Lui è una star della Borsa, la crescita dei titoli permette alle Fondazioni di aumentare a dismisura il patrimonio. La banca guadagna soldi a palate e le Fondazioni azioniste possono riversare sui rispettivi territori - e sulle loro clientele - un fiume di quattrini che si gonfia incessantemente.
Il passo successivo è quello dell’espansione all’estero. In quegli anni Profumo è considerato una specie di Sergio Marchionne del credito. Sbarca prima in Polonia, poi in Austria, compra il colosso bavarese Hvb e si porta in casa Rampl, che diventa il presidente del nuovo gruppo. Compie spesso mosse rumorose. Nel 2005, quando Geronzi pilota la sua banca Capitalia tra i grandi soci della Rcs, la casa editrice del quotidiani "Corriere della Sera", lui dà le dimissioni dal consiglio di amministrazione della Rcs Quotidiani, un salottino dove tutti i potenti vorrebbero stare per poter pesare sulle scelte del giornale milanese. Profumo cerca di costruirsi l’immagine di un manager che non vuole immischiarsi troppo nella politica, anche se ostenta la sua partecipazione alle primarie del Pd. Negli anni successivi si tiene fuori da altre partite romane: l’acquisto di Telecom Italia, il salvataggio di Alitalia. In alcuni suoi comportamenti nelle grandi partite, ci sono ambiguità: è lui, infatti, a dare una mano a Geronzi nel 2007, quando acquista Capitalia a caro prezzo, portandosi dentro tutta la schiera di azionisti e clienti dell’istituto romano. Ma c’è anche l’impressione di un banchiere che non sembra sempre disponibile a piegare la testa. Ed è questa la principale motivazione delle parole con cui ha lasciato la banca: "Sono scomodo, non faccio parte del sistema".
Con il senno del poi, si può sostenere che sia sta propria la crescita troppo affrettata a motivare, nel lungo periodo, la rottura con i suoi soci forti di sempre Biasi e Palenzona. Per convincere i venditori di turno a dargli le lore banche, Profumo deve fare concessioni eccessive. Unicredit è un aggregato dove troppi poteri locali hanno voce in capitolo. Ci sono troppi uffici, troppi consigli di amministrazione lasciati in piedi solo per fornire uno strapuntino agli alleati di turno. L’efficienza ne risente ma in suo soccorso arrivano i guadagni eccezionali che la banca riesce a fare nella finanza. Prodotti innovativi, strumenti derivati sono una manna, finché il mercato tira. Poi si trasformano in un boomerang, mettendo in difficoltà troppi clienti, troppi imprenditori che pensavano di guadagnarci a spese della banca. E invece si ritrovano con il cerino in mano. Con la finanza d’assalto in crisi, è però la stessa banca a soffrirne (vedi i conti nella scheda a pagina 52).
Il banchiere che non voleva cedere ai compromessi si è ritrovato con una banca che ha finanziato le imprese vicine agli interessi privati dei suoi grandi azionisti, Biasi e Palenzona. La scorsa estate, ad esempio, è arrivata al capolinea l’azienda di caldaie di Biasi. La crisi è stata lunghissima e per anni, emerge ora, l’Unicredit ha tentato di tenerla in piedi con i suoi prestiti. Anche a Torino non tutto è filato liscio. Stando a notizie raccolte da "L’espresso", infatti, l’istituto si è trovato alle prese con una brutta gatta da pelare: il rischio di insolvenza di alcune società attraverso le quali due finanzieri - Renato Semeraro e Gianmauro Borsano - avevano comprato la catena di negozi di arredamento Emmelunga. Tra gli esponenti delle società, figura con un ruolo di spicco Giampiero Palenzona, fratello di Fabrizio. E tra i creditori che ora rischiano di rimanere a bocca asciutta, c’è anche l’Unicredit.
Negli ultimi tempi, tuttavia, i rapporti con i suoi grandi sponsor si deteriorano. Il più determinato nel farlo fuori diventa proprio Rampl, che negli anni scorsi si era dimostrato il suo più fedele alleato negli scontri sotterranei con Geronzi. Il motivo ufficiale è il blitz dei due azionisti libici. Profumo è accusato di essere il suggeritore delle mosse di Tripoli e di aver tenuto all’oscuro Rampl. In una questione delicata e dai contorni sfuggenti, è però l’ambasciatore libico a Roma, Hafed Gaddur, a dire: "Non è vero che che il presidente era all’oscuro. Era stato informato".
I motivi reali delle tensioni con Rampl possono essere i più diversi. Dall’interno della banca emerge l’insoddisfazione dei big tedeschi seduti nel board nei confronti di un management ormai molto lontano da Monaco, e la sostituzione del responsabile del risk management (un tedesco) con un manager indiano. E c’è la programmata stretta di Profumo sull’autonomia delle controllate all’estero, che avrebbe tolto ulteriore peso ai dirigenti locali.
Il venir meno dell’appoggio di Rampl, tuttavia, ha avuto conseguenze profonde anche nei rapporti di forza con i vertici delle fondazioni, già alla frusta per il successo elettorale leghista nei rispettivi territori, che li obbliga a stipulare nuovi accordi con il partito di Umberto Bossi. La prospettiva di un lungo periodo dove i conti delle banche rischiano di essere poco brillanti (e le incertezze legate ad alcune partite ancora da giocare, come ad esempio quella con il Fisco per l’accusa di elusione fiscale) hanno messo sotto pressione Biasi e Palenzona. Poco importa che fossero stati loro, in passato, ad aver manifestato contrarietà ad alcune iniziative che Profumo aveva meditato di intraprendere. Come, ad esempio, la cessione della quota - possibile in passato, non ai prezzi attuali - che Unicredit possiede in Mediobanca, decisiva per gli equilibri della banca d’affari. Stare in Mediobanca, però, è un gioco politico al quale nessuna Fondazione rinuncerebbe volentieri. E così, dopo anni di convivenza, Biasi e Palenzona hanno fatto la somma di tutto quel che non andava. Rampl ha fornito il pretesto. E tutti i consiglieri assieme (esclusa l’indipendente Lucrezia Reichlin) martedì 21 lo hanno silurato dopo attacchi durissimi. Creando forti timori sia in Tremonti sia alla Banca d’Italia per la stabilità dell’istituto.
In un’intervista ad Antonio Galdo sui "Moderati che vorrei" (www.nonsprecare.it), Profumo disegnava i confini tra banche e politica: "Il settore bancario era ingessato, la famosa foresta pietrificata. Con due leggi, Amato e Ciampi, quindi con decisioni politiche, è diventato un settore industriale, con nuove opportunità e con una prevalenza delle scelte del mercato. Soltanto Unicredit, dopo la privatizzazione, ha unito qualche decina di banche...". Siamo solo a due anni fa. Ora la restaurazione di B&B si prepara a cancellare tutto.
Luca Piana, L’espresso 30/9/2010