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 2010  settembre 19 Domenica calendario

ADDIO AL FILANTROPO DI UNA VOLTA

Sarà tutto fuorché una cena normale. Anche per le abitudini di Warren Buffett, che è solito ospitare i potenti della Corporate America a caccia dei suoi consigli da Gorat’s, modesta e provinciale bisteccheria del Nebraska. Questa volta i consigli, assieme a un altro guru del business, il fondatore di Microsoft Bill Gates, li dispenserà a Pechino durante una serata di gala senza precedenti davanti a una selezionata platea di forse 50 super-ricchi cinesi. E quelle dell’"Oracolo di Omaha" non saranno opinioni imprenditoriali: ai 50, il prossimo 29 settembre, chiederà impegni di beneficenza.

L’appuntamento è una tappa del tour globale in cui si sono imbarcati Buffett e Gates, che accanto agli allori nella finanza e nell’hi-tech vantano da tempo anche quelli di leader nelle donazioni attraverso quello che è ormai un impero delle attività caritatevoli, la Bill and Melinda Gates Foundation che entrambi sostengono e viene celebrata come modello della nuova filantropia, dalla battaglia per la salute alla lotta contro la povertà. Un tour che ha visto appelli partire da casa: i due sono gli autori del Giving Pledge, un manifesto sottoscritto da chi, come loro, promette di regalare gran parte del proprio patrimonio. Finora una quarantina di super-ricchi americani, i cosiddetti high net worth individuals. Ad oggi questa promessa vale forse 200 miliardi di dollari, se contagerà tutti i miliardari a stelle e strisce supererà facilmente i 600, abbastanza per rivoluzionare la beneficenza (quella individuale si aggira sui 227 miliardi l’anno). La loro campagna aspira a più ancora. Adesso non ha confini: la Cina, seconda patria di miliardari dopo gli Stati Uniti. E in programma, il prossimo marzo, c’è già uno sbarco in India, a sua volta terreno fertile di nuovi ricchissimi, oltre che società afflitta da storica miseria.

Il banchetto cinese di Buffett e Gates sarà però insolito anzitutto per un’altra ragione: le resistenze - silenziose o aperte - incontrate dalla celebre coppia. Anzitutto nel convincere altri miliardari globali. Se non sono mancate defezioni americane alla loro iniziativa (ad esempio tra i re di hedge fund e private equity) è da Pechino che sono piovute telefonate di invitati al gala, preoccupati di doversi impegnare concretamente oltre che moralmente. Tanto da spingere i due a redigere una lettera aperta, pubblicata dall’agenzia ufficiale Xinhua, per precisare che non intendono "pressare" i partecipanti. «Vogliamo - hanno scritto diplomaticamente - ascoltare, imparare e rispondere a coloro che sono interessati alla nostra esperienza».

La reazione cauta dei cinesi è stata ascritta a una miscela di fattori locali: i miliardari sono spesso giovani, più impegnati a continuare ad arricchirsi che a disfarsi delle loro fortune. Qualcuno ha citato perfino l’eredità culturale del Confucianesimo, che prediligerebbe gli aiuti ai familiari a quelli alla società. Ma gli ostacoli sono anche il sintomo delle difficoltà e di polemiche striscianti che scuotono oggi l’universo della filantropia davanti all’era delle super-donazioni. Una reazione all’influenza degli ultra-ricchi nell’era post-crisi finanziaria che minaccia di trasformare anche Buffett e Gates in benefattori incompresi.

Le necessità crescenti della beneficenza sono innegabili: recessione prima e debole ripresa poi hanno inaridito finanziamenti e organizzazioni tradizionali. Il Chronicle of Philanthropy ha rilevato che l’anno scorso sono stati donati solo 4,1 miliardi di dollari dai 50 principali benefattori statunitensi: la cifra più bassa degli ultimi dieci anni. Oltre un quarto dei grandi filantropi ha inoltre rivelato tagli alle donazioni per quest’anno e i fondi elargiti, in generale, dovrebbero restare stagnanti (anche quelli della Gates Foundation). Il gesto personale di Buffett e Gates, se colma un vuoto, è tuttavia considerato una consacrazione del nuovo e dibattuto fenomeno del "filantrocapitalismo" o venture philanthropy, che prende a prestito sofisticate strategie finanziarie da Wall Street e di management dalla Corporate America e dall’hi-tech. E che con la leadership d’imprenditori di successo propone modelli di efficienza ed efficacia, orientati a risultati più misurabili come nel mondo aziendale, al grande settore della beneficenza. Un modello raccontato due anni or sono nel libro di Matthew Bishop e Michael Green Philantrocapitalism: how the rich can save the world (Filantrocapitalismo: come i ricchi possono salvare il mondo). E che ha molti fautori ma anche detrattori: il timore è che con gli agognati fondi arrivino indebiti condizionamenti o eccessiva attenzione a esiti immediati - alla stregua dell’ossessione per i profitti trimestrali delle aziende - a scapito dei traguardi di lungo termine.

Anda Adams, tra i responsabili del Center for Universal Education del think tank Brookings Institution impegnato sul fronte dell’istruzione, ha pubblicato di recente un saggio che nel titolo ha un punto interrogativo: Le promesse dei miliardari, i finanziamenti innovativi che servono?. «È un bene che ci siano più attori al tavolo della beneficenza - dice - Esiste un enorme abisso tra i bisogni e ciò che arriva da governi e donazioni tradizionali. Lo spazio per nuovi benefattori, individui o aziende, esiste eccome. Come per partnership tra pubblico e privato e per una maggior creatività nel raccogliere risorse, facendo leva sulle fortune private». Adams non nasconde però sfide irrisolte e perplessità: «Il problema è il rapporto con l’agenda del donatore quando ha propri obiettivi, ad esempio di politica estera. Sono vecchie questioni, che si trascinano dai tempi dei grandi industrali e filantropi quali Andrew Carnegie e Peter Cooper e appaiono più evidenti quando il benefattore è un singolo individuo».

Più scettico è Michael Edwards, in passato membro del board della Ford Foundation e oggi critico del filantrocapitalismo e autore di Small change, why business won’t save te world (Spiccioli: perché il business non salverà il mondo). «Perché i super-ricchi dovrebbero decidere come le scuole vanno riformate o i vaccini sviluppati?» si chiede. Il filantrocapitalismo, a suo avviso, resta un approccio «tecnocratico, che rischia di trattare le società come macchine da manipolare con i soldi. Non si possono risolvere problemi radicati quali povertà, diseguaglianza e violenza come si scrive un software o s’installa una linea di produzione per auto». E incalza: «Se non se ne renderanno conto, i filantrocapitalisti avranno un impatto trascurabile e la loro popolarità svanirà in cinque o dieci anni».

Il dibattito e le polemiche a loro volta, come la missione di Buffett e Gates, non conoscono confini. Negli Stati Uniti il nuovo ruolo filantropico dei miliardari è anche diventato oggetto l’anno scorso del primo romanzo di Ralph Nader, il militante per i diritti dei consumatori: Only the super-rich can save us (Solo i super-ricchi possono salvarci). Ma qui una pattuglia di 16 anziani miliardari - da Buffett a George Soros - decide di tradire i loro pari e battersi contro gli interessi delle corporation. Fuori dalla fiction, critiche sono rimbalzate dal Canada alla Germania e alla Cina. The trouble with billionaires, un recente libro scritto da Linda McQuaig e Neil Brooks, denuncia che le università, a partire da quella di Toronto con i suoi 120 milioni di dollari ottenuti da grandi donatori, sono diventate "vetrine" per i ricchi, che oltre a battezzare con i loro nomi i palazzi del campus indirizzerebbero la ricerca.

In Cina associazioni dei diritti umani hanno invitato i magnati ad alzare i salari e migliorare le condizioni di lavoro prima di fare beneficenza. E dal Vecchio continente un columnist del Guardian britannico ha scritto che sarebbe meglio che i ricchi promettessero, anziché donazioni, di pagare interamente le tasse, di non protestare più contro nuove regole, di aumentare le pensioni e di usare metodi di produzione ecologici. E ad alzare la voce in Germania è direttamente l’armatore e filantropo Peter Kramer, che mette sotto accusa il sistema statunitense che offre generosi sgravi fiscali ai benefattori: «I ricchi scelgono, preferiscono donare che pagare le imposte. E si sostituiscono allo stato. È inaccettabile».