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 2010  settembre 21 Martedì calendario

L´ULTIMO DEI MOHICANI

Alessandro Profumo è a un passo dalle dimissioni. A Piazza Cordusio, suo quartier generale di Unicredit, non sventola ancora la «bandiera bianca della resa». Nel consiglio straordinario di oggi vuole combattere al meglio l´ultima battaglia, che lo porterà allo scontro frontale o all´uscita di scena «con tutti gli onori». Ma una cosa è certa. Con lui ripone l´ascia di guerra l´Ultimo dei Mohicani.
L´ultimo banchiere che, nell´Italietta dei conflitti di interesse e del capitalismo di relazione, ha almeno provato a gestire la sua azienda con le logiche di mercato, compiendo svolte non ortodosse che l´hanno proiettato fuori dai confini asfittici dell´orticello domestico. L´ultimo manager che, nel Piccolo Paese dei "furbetti del quartierino", coperti dalla vigilanza e dei "Salotti Buoni" garantiti dalla politica, ha almeno cercato di difendere l´autonomia della sua banca, facendo scelte che l´hanno messo ai margini di quel che resta del cosiddetto establishment.
Chi lo ha sconfitto? «L´assalto dei libici», ripete a sproposito chi si sofferma a guardare il dito, e non vede o finge di non vedere la luna sulla sfondo. La Libia è solo un alibi. Uno specchietto per le allodole. È vero: l´aumento al 7,5% della quota di controllo della Banca centrale di Tripoli e della Lybian Investment Authority suscita qualche dubbio, e magari anche qualche sospetto. Ma a indagare a fondo tra tutti i protagonisti della vicenda - dallo stesso Profumo al ministero del Tesoro, dai rappresentanti dei grandi azionisti di Unicredit a fonti vicine all´Ambasciata libica - emerge una trama completamente diversa. A dispetto delle apparenze, i colpevoli non sono affatto i "sicari" del Colonnello Gheddafi. A colpire l´amministratore delegato, come lui stesso va ripetendo in queste ore, è un «fuoco amico» e trasversale di «grandi azionisti» della banca: le fondazioni delle Casse del Nord, il presidente e i soci tedeschi e italiani che, dentro il cda, seguono il presidente. Dunque, se si vuole dare un nome e una faccia ai «congiurati»: il numero uno della Fondazione CariTorino Fabrizio Palenzona, il numero uno della Fondazione CariVerona Paolo Biasi, il presidente di Unicredit Dieter Rampl, i rappresentanti dell´Allianz e, probabilmente, quelli di Mediobanca.
Alcuni di questi hanno un «mandante», che è politico. Palenzona è pedina strategica nella filiera Luigi Bisignani-Cesare Geronzi-Gianni Letta, che da mesi si muove per blindare il sistema dei poteri economici e finanziari intorno al presidente del Consiglio. Biasi è il nuovo «pivot» creditizio della Lega, che dalla vittoria del 13 aprile 2008 si è lanciata pubblicamente nella campagna di conquista delle grandi banche del Nord. Rampl e i suoi amici nel cda si muovono per conto dell´establishment tedesco. Gli uomini di Allianz e di Mediobanca, probabilmente, rispondono a Cesare Geronzi, che di Piazzetta Cuccia è stato presidente fino alla primavera scorsa, e che ora continua a menare le danze dei Poteri Forti anche da presidente delle Generali.
Ognuno di questi uomini ha anche un «movente». Vogliono «mettere le mani sulla banca», come va ripetendo Profumo da tempo. Oppure, detto più brutalmente: «Vogliono scegliersi i manager uno per uno, per trasformarli in cani da riporto...». Palenzona e Biasi lo fanno per rendere un favore a Berlusconi e a Bossi, garantendo una gestione di Unicredit «funzionale» ai bisogni del governo e del Carroccio. Rampl vuole dare una «lezione» a Profumo: l´establishment tedesco non ha gradito la «campagna di Germania» che l´amministratore avviò nel 2005, conquistando la Hvb e poi altri pezzi pregiati del sistema creditizio dell´Est. Non si spiega altrimenti l´offensiva mediatica partita nel fine settimana sulla «Suddeutsche Zeitung», che ha rispolverato le solite critiche alla gestione di Profumo, rilanciandogli contro il solito nomignolo di «Mister Arrogance». Geronzi, infine: per lui, probabilmente, il movente politico si incrocia con quello personale. È lungo l´elenco degli «oltraggi» che il vecchio Cesare del capitalismo italiano non ha mai perdonato a Profumo: dalla sua estromissione dalla banca dopo la fusione Unicredit-Capitalia alla fuoriuscita della banca dall´azionariato Rcs, dal no ai Tremonti-bond al no al suo trasferimento da Mediobanca a Generali. Ora Geronzi può consumare la sua vendetta. «Non so se il regista di questa operazione è proprio lui - diceva ieri sera un banchiere amico di Profumo - ma è sicuro che Geronzi è l´origine di tutti i suoi mali...».
Per mesi i «grandi azionisti» dell´istituto hanno tentato a più riprese di indebolire Profumo, che oggettivamente ha fatto i suoi errori, anche se non merita il brutale «benservito» che oggi i consiglieri vogliono propinargli. Sono almeno tre le armi «tecniche», usate dai nemici interni del manager per tentare di metterlo con le spalle al muro.
La prima arma è la redditività dell´azienda. La tempesta perfetta che ha squassato i mercati e le banche negli ultimi due anni e mezzo non ha risparmiato Unicredit. A dispetto delle voci ricorrenti che volevano la superbanca sempre a un passo dal tracollo perché «imbottita» di titoli tossici ingoiati nella massiccia campagna acquisti tedesca, Profumo è riuscito a tenere l´Istituto al riparo dai rischi. Il Core Tier 1 è stabile all´8,41%, tra i più elevati del sistema. Ma questa messa in sicurezza non è stata indolore per i grandi azionisti, costretti a più riprese ad aprire il portafoglio: per rafforzare il capitale, per sottoscrivere i bond cashes del 2009 e per sostenere il titolo in Borsa. Nel frattempo, l´utile si è ridotto: sfiorava i 6 miliardi nel 2007, è sceso a 1,7 miliardi nel 2009. Il dividendo ha subito lo stesso andamento: 26 centesimi per azioni tre anni fa, 0,03 euro lo scorso anno. Il titolo in Borsa quotava 6,5 euro prima della crisi, oggi fatica a mantenersi a quota 2 euro. Il Roe (Return on equity) si è ridotto dal 15 a poco meno del 5%.
La seconda arma è l´organizzazione dell´azienda. Dopo un primo braccio di ferro nella primavera scorsa Profumo aveva raggiunto un compromesso, e varato il modello della Banca unica, re-incorporando sette società-prodotto nella holding quotata. La speranza era quella di assicurare un riavvicinamento tra la presenza dell´istituto e i suoi clienti, e un incremento delle economie di scala pari ad almeno 300 milioni l´anno. Ma l´effetto immediato, inevitabile, è stato l´emersione di 4.100 esuberi, più 600 prepensionamenti. Un focolaio di tensione sindacale pericoloso, per una banca impegnata in una riorganizzazione così profonda del suo modus operandi.
La terza arma è il rapporto con i territori. E qui, nell´offensiva contro l´amministratore delegato, pesano soprattutto le fondazioni delle due casse del Nord. Gettando benzina sul fuoco del malcontento leghista, che dal Senatur ai sindaci come Flavio Tosi esigono che «le risorse delle banche del Nord vadano al Nord», Palenzona e Biasi hanno lanciato l´attacco a Profumo già dalla scorsa primavera. Il compromesso trovato allora, la nomina di un «country manager» affidata a Gabriele Piccini, ha sancito solo una tregua, destinata chiaramente a non reggere. Infatti non ha retto.
Ed ora siamo alla resa dei conti. Ma il modo in cui ci si è arrivati è inaccettabile. Persino un ministro, da Roma, commenta con indignazione quello che sta avvenendo: «Questa mossa contro Profumo ha sorpreso tutti, nel governo e in Banca d´Italia. Unicredit è la più grande banca italiana, ha un proiezione internazionale fortissima, parla in 18 lingue diverse, è una vera e propria istituzione finanziaria europea: se ci sono problemi interni, tra soci e management, non si risolvono certo in questo modo. Se vuoi cambiare l´amministratore delegato prima ne trovi un altro, prepari la successione e poi procedi... «. Invece i «grandi azionisti» hanno scelto un´altra strada: quella dello scontro frontale, che ora spinge Profumo a dire: a queste condizioni non resto, gli azionisti fanno gli azionisti, ma l´azienda la gestiscono i manager. Un principio che in Italia non gode di molta fortuna. Per questo l´Ultimo dei Mohicani è destinato alla sconfitta: resistere e insieme gestire una banca globale avendo contro una parte rilevante del cda che ti vuole silurare è un´impresa titanica.
«Forse l´era Profumo è finita», ripete il solito banchiere amico dell´amministratore delegato. Anche se Tremonti sta tentando di convincere i soci a ricucire lo strappo. Perché questo attacco a Profumo, come ribadisce un altro ministro, «è un´operazione squallida, sgangherata e mal congegnata, che è stata fatta senza neanche informare le istituzioni». E perché «il più grande istituto di credito del Paese non si governa come se fosse una segheria». Fonti vicine a Geronzi parlano di «operazione di sistema», volta a dare stabilità a Unicredit attraverso l´impegno dei soci tedeschi e libici. È l´esatto contrario. «È una manovra di furbastri, quindi tutta italiana, e tutta al di fuori dell´establishment...», conclude il solito ministro. Se un establishment esiste davvero, in questo sciagurato Paese, ha solo un modo per dimostrarlo: fermi questa congiura. E una volta tanto agisca in nome del libero mercato, e non per conto della manomorta politica.