Romana Liuzzo e Donatella Marino, Panorama 23/9/2010, 23 settembre 2010
ECCO CHI VUOLE UCCIDERE LA SCUOLA
Al primo posto gli interessi degli studenti e non quelli corporativi. Perché, se il ministero dell’Istruzione anteponesse gli insegnanti agli alunni, sarebbe come se al dicastero della Salute si parlasse solo di medici e non di ammalati. Questo, in sintesi, è il pensiero di chi spera di cambiare le cose per oltre 700 mila docenti e quasi 8 milioni di alunni. Fra proteste vere e create ad arte, la campanella è suonata. E se il ministero parla di una riforma epocale, gli insegnanti gettano benzina sul fuoco e annunciano che scenderanno in piazza venerdì 8 ottobre. Poco importa se entro il 2010 ci saranno 10 mila nuovi assunti, con la promessa di assorbire i precari in otto anni. Poco importa se è stata fatta po’ di chiarezza nel ginepraio degli indirizzi, se è stato incentivato l’insegnamento dell’inglese e incrementato l’orario per le materie scientifiche.
Manifestazioni e cortei avanzano seguendo il copione: un rito che si ripete ogni anno, contro ministeri di tutti i colori. Ma l’interrogativo da porsi è: chi sta uccidendo la scuola italiana? E anche: riuscirà il ministro per l’Istruzione Mariastella Gelmini a infrangere la tradizione dell’immobilismo? Lo impedirono perfino a Luigi Berlinguer, mandato a casa nell’aprile del 2000 dalla protesta degli insegnanti. E se è innegabile che la Finanziaria taglierà 8 miliardi di euro alla scuola in tre anni, lo è altrettanto il dato del ministero: il 97 per cento del bilancio se ne va in stipendi. Che cosa resta, davvero, per gli studenti?
Intanto, sulla necessità di un salto di qualità nelle aule, di fronte a una platea di giovani, ha fatto sapere la sua opinione anche il capo dello Stato, Giorgio Napolitano: «Servono più risorse per la scuola, ma anche più qualità in attività formative e nell’impegno a produrre buoni risultati. E questo dipende dagli insegnanti e dagli studenti».
UN PROF PER 10 STUDENTI E 21 ALUNNI PER CLASSE
Fra le proteste spicca quella sul sovraffollamento delle classi. Eppure, come dicono i dati Ocse, l’Italia ha un rapporto insegnanti/alunni tra i più favorevoli d’Europa: in media, un insegnante ogni 10 alunni. A parità di studenti, abbiamo molti più docenti che in Germania, Francia o Gran Bretagna. Il sovraffollamento è un giallo, oppure da noi ci sono sacche d’improduttività? «Nessun giallo» sottolinea Giovanni Biondi, capo dipartimento della programmazione del ministero dell’Istruzione: «Ci sono oltre 2 mila classi con 30 o più studenti. Ma 4 mila ne hanno 12 o meno di 12».
La media nazionale, comunque, è di 21,1 alunni a classe, salita nell’anno scolastico appena iniziato a 21,3. «Si protesta per un più 0,2 percentuale che, in ogni caso, ci fa stare al di sotto della media Ocse, che è di 21,6 alunni per classe nella scuola primaria e di 23,9 nella secondaria» chiarisce Biondi. I sindacalisti non sono d’accordo: «Gli insegnanti sono troppi perché la nostra situazione è diversa dal resto d’Europa» dice a Panorama Massimo Di Menna, segretario generale della Uil scuola. Siamo gli unici ad avere docenti di sostegno inseriti nell’organico (sono 90.496) e gli unici ad avere insegnanti di religione (23.171). Ma perché, se ci sono tanti docenti, le classi sono così poco omogenee? «Dipende dalla collocazione geografica. A Roma ci sono classi con 35 alunni, nei piccoli paesi del Lazio gli alunni scendono anche a 13».
PIÙ STUDENTI IN AULA,PIÙ S’IMPARA
L’Ocse aggiunge, però, che la scuola italiana produce risultati d’apprendimento deludenti. Sono stati resi noti da poco i risultati non proprio brillanti dei test Invalsi, primo tentativo di meritocrazia, basato su griglie e valutazioni omogenee, introdotti in giugno durante gli esami di terza media, concorrendo alla valutazione finale dello studente. I test mostrano alunni più «somari» in italiano e in matematica al Sud che al Nord. Un paradosso, considerando il numero di 100 con lode assegnati all’ultimo esame di maturità in Puglia, Campania, Sicilia e Calabria. Evidentemente c’è un problema di standard non uniformi. Lo dimostra il caso Veneto, che nei test di apprendimento Ocse-Pisa ha risultati simili a quelli della capofila: la Finlandia.
Ma c’è un altro mito da sfatare: «Non è automaticamente vero che più le classi sono numerose e meno s’impara» aggiunge Biondi. «Anzi, avviene il contrario. La votazione media nei test Invalsi è stata più alta nelle classi con oltre 25 studenti e più bassa in quelle con meno di 15».
STIPENDI PIÙ BASSI CHE NEL RESTO D’EUROPA
Malgrado gli scarsi risultati rispetto ad altri paesi Ue, i nostri studenti trascorrono molto tempo a scuola. Tra i 7 e i 14 anni, ognuno di loro frequenta in media 8.316 ore contro le 6.777 dei paesi Ocse. In compenso, il rapporto tra ore di lavoro e insegnante in Italia è basso: alle elementari sono 26 a settimana contro le 35 della Francia, le 37 della Danimarca e le 40 della Germania.
In definitiva, dal confronto col resto d’Europa esce un risultato apparentemente contraddittorio, ma sicuramente deludente: in Italia è più alto il numero di ore trascorse a scuola dagli studenti, è maggiore il numero d’insegnanti per alunno, eppure sono peggiori i risultati in termini di apprendimento. Un corollario a questo risultato riguarda le retribuzioni: per l’elevato numero di docenti, in Italia i loro stipendi sono più bassi della media europea. Però lavorano meno e sono anche fra i più anziani del continente: quasi la metà di loro ha più di 50 anni. In Germania sono pagati meglio, ma lavorano di più. Sul tema, una bacchettata arriva dall’Ocse. Un funzionario dice a Panorama: «In Italia finite per mangiarvi quasi tutto in stipendi, anche se bassi, e riducete le risorse per altri investimenti didattici. Nei sistemi che funzionano meglio, invece, una retribuzione più alta serve ad attrarre gli insegnanti migliori»
ADESSO PIÙ SPAZIO ALLA MERITOCRAZIA
«Questi risultati mostrano che abbiamo una scuola autoreferenziale e che andrebbero introdotti valutazioni del merito più oggettive» commenta dal ministero Giovanni Biondi. Così si sta pensando di creare un percorso che porti a valutare la scuola nel suo complesso, dalla gestione delle risorse alla dispersione scolastica. Un punto cruciale è che non c’è alcuna progressione per merito nella carriera degli insegnanti: l’aggiornamento non è considerato, si avanza per anzianità. Su questo sono d’accordo gli esperti e i presidi. «Per un migliore apprendimento, come mostrano studi internazionali, più dell’alto numero dei docenti pesano altri fattori: dalla qualificazione alla motivazione a ottenere risultati» conferma Carlo Buratti, ordinario di scienza delle finanze all’Università di Padova, che si è occupato di scuola nella commissione tecnica per la finanza pubblica del governo Prodi.
Oltre ad auspicare carriere per merito, Giorgio Rembado, presidente dell’Associazione nazionale presidi, rilancia: «Si dovrebbe arrivare al reclutamento diretto da parte della singola scuola, per garantire che gli insegnanti siano i più idonei ai piani di studio». La Legge finanziaria ha parzialmente bloccato il processo verso il riconoscimento del merito. Il 30 per cento dei risparmi ottenuti con i tagli, circa 1 miliardo di euro a regime, sarebbe dovuto andare a retribuire gli insegnanti più bravi. Con il beneplacito dei sindacati, invece, si è preferito coprire con parte di quella cifra il costo degli scatti d’anzianità: e gli insegnanti saranno l’unica categoria del pubblico impiego senza il blocco degli scatti. «In ogni caso il resto andrà a un progetto sperimentale di meritocrazia» conferma Biondi. Probabilmente si sceglierà di partire da un numero campione di regioni, su base volontaria.
GUERRA DI CIFRE ANCHE SUI FINANZIAMENTI
«Dal 2000 a oggi il finanziamento ordinario delle scuole, dai laboratori fino alla cancelleria, si è praticamente azzerato» lamenta Rembado. Se la spesa per studente è in linea con la media Ocse, la spesa in quota sul pil è inferiore, e non da oggi. Secondo Buratti non si spende poco, ma si potrebbero liberare risorse, anche per l’edilizia scolastica, cercando di accorpare plessi nei grandi centri e controllando meglio l’impiego degli insegnanti di sostegno. «La spesa per l’istruzione sale a 60 miliardi se si aggiunge anche quella sostenuta dagli enti locali» calcola Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli. «Ma alla base di una razionalizzazione degli interventi ci dovrebbe essere un sistema di valutazione valido per tutte le scuole». E si torna al punto di partenza.
PRIME CONTROMISURE CON LA RIFORMA
La riforma, intanto, sta cercando di porre qualche rimedio. Ha ripensato gli orari. È stato potenziato lo studio delle lingue e incrementato il tempo dedicato a matematica e fisica. Vengono istituiti due nuovi licei: il liceo musicale e il liceo delle scienze umane. Gli indirizzi sperimentali, che prima erano addirittura 396, sono stati ridotti a sei. Entro il 2010 sarà bandito un nuovo concorso per diventare presidi, con 3 mila posti. Aumenta il tempo pieno del 3,5 per cento. Con l’anno scolastico in corso sono stati assunti 10 mila nuovi docenti e 6 mila amministrativi. Da quest’anno gli studenti non potranno superare i 50 giorni di assenza, pena la bocciatura. Oltre 40 mila classi e 1 milione di studenti usufruiranno delle lavagne multimediali, mentre 300 mila insegnanti saranno formati all’utilizzo di nuove tecnologie. Se vi sembra poco…