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 2010  settembre 21 Martedì calendario

TRA IL POPOLO DI «ESPERANZA» IN ATTESA CHE SI COMPIA IL MIRACOLO —

Il tripudio per il Bicentenario dell’Indipendenza del Ci l e ha c oi nvolto nei giorni scorsi tutte le città del Paese, che hanno fatto a gara per celebrare degnamente la ricorrenza con spettacolari feste nazional-popolari com’è nella loro indole e tradizione: anche se la vicenda dei 33 uomini intrappolati dal 5 agosto nella miniera di San José sotto il deserto di Atacama ha posto bruscamente un limite all’euforia.
L’ultima notizia raccolta nell’accampamento «Esperanza», dove da quasi due mesi si sono stabiliti i famigliari dei 33 minatori, è che la perforatrice T-130 ha raggiunto i 630 metri di profondità, cioè il livello in cui si trovano gli operai della San Josè. L’obiettivo, ora, è quello di allargare il «buco», appena costruito, fino a 60 centimetri per consentire la loro uscita: che, secondo le previsioni più rosee degli esperti, potrebbe aver luogo ai primi di novembre.
L’accampamento «Esperanza» è come un palcoscenico dove ognuno recita il suo ruolo. Una buona parte delle famiglie dei minatori ha preso alloggio sotto le tende, altri si sono trincerati nelle proprie roulotte.
Ma i più fanno visite quotidiane, arrivando in pullman dalla vicina città di Copiapó per rientrare a casa in serata. Questo rapporto con le famiglie, alimentato dalle lettere che scendono e salgono nelle capsule attraverso l’«ombelico» scavato nella terra, ha contribuito notevolmente ad alleviare l’angoscia delle prime due settimane, quando ancora nessuno sapeva dell’infortunio dei «sepolti vivi».
Da qualche giorno anche noi cronisti facciamo parte della popolazione di «Esperanza»: che ci viene incontro favorendo il contatto con le famiglie dei minatori della San José, molte delle quali hanno appiccato sulla propria tenda il ritratto del padre, del figlio, del fratello, dell’amico, rimasti laggiù, nelle viscere calde o fredde della terra.
Carolina Lobos, una bella ragazza di 25 anni che fatica a contenere la propria esuberanza nella tuta rossa, il ritratto del padre, Franklin Lobos, se lo porta nel cuore. Dopo una brillante carriera da calciatore, suo padre scese in miniera, come avviene spesso in Cile dove i campioni non hanno contratti da capogiro come da noi.
«Quando mi informarono dell’incidente del 5 agosto — racconta — io sapevo che mio papà non era morto…. Ma sapevo anche che la miniera di San José non aveva i dispositivi di sicurezza sufficienti. Per poter estrarre quantità sempre maggiori di rame e oro scavavano più del necessario, senza preoccuparsi della solidità e dello spessore delle pareti. Il nostro signor Presidente venne a trovarci e disse tante belle parole. Ma parlava come un impresario e per un impresario i lavoratori sono soltanto un numero. Non così la senatrice Isabel Allende, che sta con noi con tutto il suo cuore e si batte per noi».
Valutazioni e ritratto che trovano piena conferma quando, il giorno dopo, incontro la figlia di Salvador Allende all’accampamento «Esperanza», dov’è di casa. Blue jeans e giubbotto, scattante, indaffaratissima, cammina e parla, parla e cammina, 65 anni portati bene: ne aveva 28 quando suo padre perse la vita durante l’assalto al Palazzo della Moneda. Le chiedo se l’incidente della miniera San José poteva essere evitato.
«Penso proprio di sì — risponde —. Però occorrevano due cose: che gli organismi facessero compiutamente il loro lavoro e che gli impresari agissero con coscienza adottando le necessarie misure di sicurezza, ciò che non è stato fatto. In questo momento la mia preoccupazione è di riportare in superficie al più presto i 33 minatori. Ma al tempo stesso mi angustia il pensiero che questa miniera non sarà più attiva e che avremo quindi più di 300 operai disoccupati. Il Cile è il maggior esportatore di rame nel mondo: e il rame costituisce la più grande fonte di ricchezza del nostro Paese nella misura del 60 per cento».
Apprensione condivisa dal capo dei sindacati Javier Castillos che deve fare i conti con lo spettro della disoccupazione e pone sotto accusa altre società minerarie che non sarebbero seconde alla San José per l’inadeguatezza delle misure di sicurezza: «Facciamo pure il nome della miniera Carolina — conclude — dove nel 2006 ci fu una grande esplosione». Nell’ultimo decennio 373 persone sono morte nelle viscere della terra cilena turgide di rame.
«Tutti ci rendiamo conto del rischio che si corre — dice Hector Ticona, che ha trascorso la sua esistenza sotto terra e fa ora il pensionato —: ma qui non c’è scelta, non si trovano altri lavori e la paga è buona, 1.300 dollari americani al mese in una grossa miniera come la San Josè, 1.000 in un "buco" più modesto. Ma le strutture sono ovunque scadenti, non ci sono pilastri e pareti solide di sostegno e così, prima o poi, le rocce ti cascano addosso».
Suo figlio, Ariel, 27 anni, è uno dei 33 intrappolati. E mentre lui era giù, la moglie, Elizabeth Segovia, gli ha fatto dono di una bimba ed è anche riuscita a fargli pervenire nel suo antro un minivideo dei primi attimi di vita della neonata. Inizialmente i genitori avevano pensato di battezzarla Carolina Elizabeth, ma dopo l’incidente del 5 agosto Ariel ha suggerito che non ci sarebbe stato per lei nome più bello di Esperanza, dal momento che la nascita è avvenuta in un clima magico di grandi emozioni, di pena e speranza.
La situazione non è drammatica e certamente si troverà una soluzione per riportare a galla poche decine di uomini che — sentenzia Castillos — «sono incarcerati 700 metri sotto terra senza aver commesso alcun delitto». All’accampamento c’è un tranquillo clima di attesa. Sotto le tende (ermeticamente chiuse dopo il crepuscolo) il solito tran tran della vita domestica, il pentolone che bolle, la teiera, i bambini che giocano strillando.
Un’atmosfera quasi idilliaca se non gaudiosa: che però ha corso il rischio di infrangersi quando è scaturita la polemica sull’opportunità o meno di festeggiare il 18 settembre, anniversario dell’indipendenza, con celebrazioni, sfarzo e banchetti ufficiali.
«Vi pare questo il momento delle grandi manifestazioni e dei pavoneggiamenti mentre 33 uomini sono relegati nelle caverne sottoterra e rischiano di morire?», hanno protestato con veemenza molte famiglie degli intrappolati.
All’accampamento è nettamente prevalsa la decisione di attenersi a un comportamento di sobrietà simile a quello cui sono costretti, ha detto la signora Alicia Campos, madre di Daniel Herrera, i «nostri figli e fratelli laggiù sottoterra». Quindi, bando all’ingordigia e ai peccati di gola
Con Luigi sono ospite nella tenda di Nelly Buguno Zepeda e di Griseida Godoy Ogaide, rispettivamente madri di Victor Zamora, 33 anni, e di Carlos Barrios, 27, ambedue del gruppo dei 33. La signora Nelly stava leggendo la Bibbia quando sono entrato in casa ma non esita a togliersi gli occhiali per intessere un panegirico al figlio che tiene con lei un contatto quotidiano scrivendole lettere e poesie. Lavora in miniera come gli altri suoi due figli che invece hanno scarsa famigliarità con gli endecasillabi.
Lamenta che il lavoro nella miniera sia mal pagato e alla fine ammette che «nessuno può mai sapere se alla fine torneranno a casa».
Griseida è d’accordo e aggiunge che «dobbiamo dar loro appoggio morale e amore con le nostre lettere. È importante che non siano depressi. E laggiù non è facile. Ci sono discussioni e scontri fisici tra di loro, come è natura che avvenga fra 33 uomini, ognuno con il suo proprio carattere. Però infine c’è solidarietà, anche per affrontare una condizione di vita impossibile dove non è mai giorno e non è mai notte. Per il calore e l’umidità soffrono il mal di piedi. Insomma, un inferno, 24 ore su 24».
Nell’accampamento cammino tra una selva di cartelli, bandiere, striscioni dove, sotto un volto e un nome, c’è scritto «noi ti aspettiamo», «la tua figlia che tanto ti ama», "papito il mio cuore è con te»; e si trovano anche messaggi tracciati col gesso sulla roccia e sul dorso della montagna domina uno striscione rosso che inneggia alla lotta con la scritta «Fuerza Mineros!!!»
Nel mosaico delle sofferenze di «Esperanza» mettiamoci pure la famiglia di Mario Gomez, che, a 63 anni, è il più anziano dei 33. Sotto una tenda azzurro-grigia sua figlia Romina sta scrivendo ora una lettera che in serata raggiungerà il padre attraverso il tubo. «Papà — dice — cominciò a lavorare nella miniera a 13 anni ed è stato minatore per tutta la sua vita».
Quattro passi più in là, un uomo massiccio di nome Juan sta cercando di sistemare alla meglio su un baluardo roccioso il ritratto di un giovane, già glorificato da scritte e cartelli. «E’ mio figlio Jimmy — mi informa —, ha 19 anni ed è rimasto intrappolato laggiù con tutti gli altri. Nella foto che vedi ha in braccio la figlioletta Barbara, 3 mesi appena che io chiamo Barbarita…. Siamo una famiglia di minatori, mio nonno, mio padre. Io ho lavorato alla San José per 3 anni e Jimmy era in miniera da appena 4 mesi».
Il destino di Barbarita è segnato. Diventerà la moglie di un minatore e metterà al mondo un mini-esercito di mini-minatori. Perché sta scritto che un «Chile sin mineros no es Chile», un Cile senza minatori non potrebbe esistere.
Ettore Mo