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 2010  settembre 21 Martedì calendario

GRATIS. LA RISPOSTA ALLA CRISI

(due articoli di Paolo Lambruschi per Avvenire) -

Ossola: leggere san Francesco contro la logica del «balconing» -

La letteratura pare viaggiare su rotte assolutamente slegate dalla gratuità. A «Torino Spiri­tualità » sarà Carlo Ossola, uno dei massimi critici letterari e filologi i­taliani, autore del recente saggio Il continente interiore , a indicare i per­corsi per ritrovare la virtù del dono attraverso la parola scritta. Che non deve essere necessariamente mer­ce, perché a volte non ha prezzo.

Professore, che senso attribuisce a gratuità e dono in questi tempi?

«Un senso molto ristretto: la ’gra­tuità’ oggi dilaga come beau geste pericolosamente e­sibito, sino alla tra­gica novità del bal­coning, che ha fatto molte vittime que­st’estate a Ibiza; la ’gratuità’ non è la dépense, il dispen­dio di sé, bensì – al­l’opposto – il rico­noscere che ciò che ci è più prezioso (la vita, in primis) l’abbiamo ricevuto gratis. La gratuità ’la si vede dopo’ averla riconosciuta (da ciò la rico­noscenza), tanto essa passa natu­ralmente silente, discreta, imper­cettibile. Come a Emmaus».

È possibile incontrare tali valori in questa società e nella letteratura che esprime?

«La letteratura è della stessa natura dell’acqua: serve ’a scavar pietre, a nutrire arcobaleni. /... Quanto è leg­gero tutto questo in una goccia di pioggia. / Con che delicatezza il mondo mi tocca» dicono i versi del­la poetessa polacca Wislawa Szym­borska, premio Nobel nel 1996. Il gratuito non è un dono, ma quello sguardo che fa del mondo una goc­cia di rugiada, si lascia contempla­re «in piccole eternità», sempre Szymborska, La gioia di scrivere. Il gratuito, come la poesia, non co­nosce la parola ’cosa’».

Ma allora quali autori e letture sug­

gerisce per accompagnare la ricer­ca della gratuità?

«Per la luminosa profondità della testimonianza, il diario del segreta­rio generale dell’Onu Dag Ham­marskjöld (1905-1961), Tracce di cammino: è il continuo ricercare, nella rettitudine dell’agire, la co­munione con l’offerta. Porrei ac­canto la raccolta dei Fioretti di san Francesco, perché non c’è gratuità senza povertà: in essa dono e con­tro- dono cessano, perché non c’è nulla da dare: si è ’a mani vuote’. In­fine Tarabas di Joseph Roth: una le­zione e una parabola verso l’ab­bandono. E anche, per chi volesse vederne applicazioni nel viver quo­tidiano, il Comment vivre ensemble di Roland Barthes, un piccolo trat­tato di delicatezza contro l’arro­ganza. Poiché non c’è gratuità sen­za
effacement, senza il ’non lasciar traccia’, nell’anonimato».

La lettura di un testo letterario è senz’altro un gesto che arricchisce l’anima. Può restare slegato oggi dall’aspetto commerciale?

«La domanda comincia a prender forma quando il li­bro diventa merce. Ciò che ci ha forma­ti sono i versi che abbiamo imparato a memoria, quelli che abbiamo canta­to, i libri presi a pre­stito in biblioteca, i racconti d’infanzia che ci hanno ac­compagnato, la se­ra, verso il sonno (uno su tutti: Il pic­colo principe ). I libri che abbiamo regalato perché parlassero, all’altra, all’altro, a nome nostro. Questa me­moria non avrà mai prezzo. I veri li­bri sono ’impagabili’».

Come proporre la gratuità ai più giovani?

«’Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date. Non procura­tevi oro, né argento, né moneta di rame, né bisaccia da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone, per­ché l’operaio ha diritto al suo nutri­mento’ (Mt 10, 8-10). La grazia è un dono, ma la giustizia nella sobrietà è un esercizio che va insegnato, pra­ticato, va ogni giorno riappreso, per­ché questa società chiede, anzi im­pone l’oblio della giustizia. La gra­tuità non mira a un equilibrio tra dato e avuto, ma alla remissione nel­la pace. Insegnare la pace pacifi­cando, il perdono perdonando, la gratuità rendendo grazie».

*****

Vacis: teatro di porta in porta. E il «di più» abita in periferia -

Tornare al teatro popolare e ci­vile, al rapporto diretto dei palchi portati nelle case in cambio di una cena e alla rappre­sentazione del patrimonio di gra­tuità nascosto nelle periferie. Per il regista torinese Gabriele Vacis può essere la via per i giovani talenti per esprimersi sulle scene senza scopo di lucro anche in tempi difficili per chi recita.

Si può parlare di gratuità a teatro?

«In questi tempi il teatro è legato al­l’economicità. Perciò affermare che esiste la possibilità di fare spettaco­li slegati dal mercato mi pare im­portante specie in tempo di crisi e tagli alla cultura».

Nella sua esperien­za cosa l’ha avvici­nata al valore della gratuità?

«Lo spettacolo sul Vajont, forse il più famoso che abbia­mo fatto, è nato co­me racconto che si provava a casa di a­mici. Prima c’era stato Stabat Mater con gli attori che nel 1989 andavano nelle case. L’idea era semplice: non era il teatro a ri­chiamare il pubblico, ma il pubbli­co a invitare il teatro a casa propria ed era davvero un rapporto fuori da ogni regola e istituzione. Non c’era neppure bisogno di pagare la Siae, perché si recitava in un’abitazione privata. C’era un dono, si arrivava con armi e bagagli e si chiedeva in cambio ospitalità per una sera. Sia­mo partiti pensando di preparare u­no spettacolo che non avevamo vo­glia di provare a casa. Allora abbia­mo telefonato ad amici dicendo lo­ro di invitare altre persone. Ci siamo accorti che lo spettacolo era proprio andare nelle case, prima di amici, poi di un sacco di gente che ci chia­mava. Siamo andati avanti tre anni».

E lo spettacolo sul Vajont?

«Stessa genesi, per un lunghissimo periodo non l’abbiamo rappresen­tato nei teatri. Abbiamo dovuto por­tarcelo perché non c’erano posti per contenere il pubblico che voleva ve­derlo, per tre anni si è fatto nelle ca­se. È nata così dalla gratuità l’idea di teatro come incontro civile».

C’è ancora questa spinta?

«Mi pare di vedere un recupero for­zato da parte dei giovani che fanno di necessità virtù in tempi grami che rendono impervi i sentieri tradizio­nali della distribuzione. I teatri sta­bili si scambiano gli spettacoli, è dif­ficile entrare per i giovani che si in­ventano formule di gratuità».

Nelle periferie è ancora forte il va­lore del dono?

«Sto finendo in questi giorni il mon­taggio di un film sulla paura, un gi­ro d’Italia nelle periferie di sei città, da Settimo Torinese a Montegrana­ro, da Ravenna a Schio, da Genova a Catania. Qui siamo stati nel quartie­re di Librino, periferia per antono­masia, più ancora di Scampia. Dove accanto a episodi di criminalità e al­le difficoltà quotidiane si incontrano personaggi straordinari che fanno della gratuità la ragione della loro vi­ta. Dai volontari della Caritas che hanno costruito un punto di incontro per i bambini sotto il palazzo più peri­coloso del rione, al­la scuola Campanel­la- Sturzo, dove pre­side e insegnanti fanno molto più di quanto loro richie­sto. Lì nessuno paga per i rischi che si corrono, è proprio tutto gratis».

Secondo lei è cambiata la periferia?

«La gratuità resiste, almeno nelle pe­riferie del nordovest. Prendiamo Set­timo Torinese, dove sono nato e cre­sciuto. Rispetto alla mia infanzia non c’è paragone, oggi la qualità della vi­ta è molto alta grazie al lavoro di mol­ta gente che ci ha messo del proprio. È naturale che oggi difendano quel­lo che hanno conquistato, nasce quindi un sentimento di chiusura e la paura. Bisogna però vincere la ten­tazione di chiudersi, che è il modo per farsi portare via tutto ciò che si ha. Condividere aumenta invece la possibilità di difenderlo».

La gratuità è proponibile ai giovani?

«Noi adulti dovremmo essere più co­raggiosi ed esigenti coi giovani anzi­ché proteggerli sotto una campana di vetro. Hanno bisogno di misurar­si con idee forti senza la pretesa di ri­cevere nulla in cambio».