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 2010  settembre 19 Domenica calendario

LA FIERA AGONIA MAPUCHE


Il quattro settembre ricorrevano i quarant’anni dalla vittoria democratica che portò Salvator Allende alla presidenza del Cile, e quel giorno un gruppo di trentadue comuneros mapuche, prigionieri politici alla mercè degli abusi dello Stato cileno, contavano il cinquantaquattresimo giorno di sciopero della fame.
Che effetti ha un digiuno così lungo? Secondo il parere degli specialisti, dalla sesta settimana di digiuno il rischio di danni irreversibili è di circa il 90%. L’organo più colpito è il cervello che ha bisogno di centoventi grammi di glucosio al giorno; uno dei sintomi principali è lo stato di confusione mentale che indica il deterioramento irreversibile, sì, proprio irreversibile.
Il tre settembre, il presidente cileno Sebastián Piñera ha parlato per la prima volta dello sciopero della fame che stanno affrontando i comuneros mapuche e ha annunciato che verrano presentate al parlamento due proposte di legge: una che «modernizza e modifica la giustizia militare» (Piñera ha molte lacune tra cui quella di non conoscere il pensiero di Montesquieu, grande precursore della teoria della separazione dei poteri, che sosteneva che «la giustizia militare è così nociva alla giustizia come la musica militare lo è per la musica»), e l’altra che «definirà e connoterà meglio il reato di antiterrorismo». Anche l’uso del linguaggio non è il suo forte, o c’è forse qualcuno in grado di spiegare che cos’è il reato di antiterorrismo di cui parla Piñera?
Al quinto giorno di sciopero della fame dei comuneros mapuche, organi importanti come il fegato e i reni hanno cominciato a risentirne: l’organismo smette di consumare il glucosio e il glicogeno immagazzinati e comincia a bruciare i grassi, la riserva energetica degli esseri umani, che si esaurisce intorno al quarantesimo giorno di digiuno.
Ai comuneros mapuche viene applicata una legge antiterrorismo che li priva dei diritti fondamentali garantiti dallo stato di diritto; e per giustificare questa misura si allude a informazioni «attendibili» secondo cui, - così si mormora - i mapuche sarebbero probabilmente legati alle Farc, le Forze armate rivoluzionarie della Colombia. Queste informazioni, tenute a lungo rigorosamente segrete, sono state fornite dall’ex-presidente colombiano Álvaro Uribe, quel personaggio che, concluso il suo mandato, ha lasciando in eredità ben trentaduemila desaparecidos, un numero vicino al totale dei desaparecidos contati durante tutte le dittaure dell’America latina. Di tutti questi desaparecidos, almeno millesettecento sono i cosiddetti «falsi positivi», giovani trucidati dall’esercito e dalla polizia colombiani e fatti passare come guerriglieri morti in battaglia. La gestione di Álvaro Uribe durata due mandati ha potuto contare sull’appoggio e il beneplacito del governo degli Stati uniti.
Che credibilità possono avere quindi le informazioni fornite da un soggetto di tal fatta? Poco più di un anno fa il Battaglione Boyacá dell’esercito colombiano presentò alla stampa i cadaveri di venti guerriglieri «caduti in combattimento». Erano gente indigente e contadini catturati a casaccio e assassinati per poter giustificare le misure antiterrorismo del governo. Uno di questi, un invalido incapace di muovere le braccia, fu presentato con un fucile in mano. Può avere valore legale un’informazione fornita da un genocida? Eppure queste informazioni ricevute da Uribe fanno comodo al governo cileno - quello attuale di destra e quello di centro-sinistra che lo ha preceduto - per giustificare l’applicazione delle leggi antiterrorismo ai mapuche.
Dopo trenta giorni di sciopero della fame i comuneros mapuche sono stati colti da una spossatezza infinita che quasi gli impedisce di parlare. Gli effetti della denutrizione colpiscono tutti gli apparati dell’organismo. Dopo quaranta giorni di digiuno - e il quattro settembre erano già arrivati a cinquantaquattro - il deterioramento e il logoramento fisico è evidente e causa incapacità di movimento, perdita di coscienza, e un’apatia generale: tutti sintomi dei danni irreversibi dovuti alla mancanza di energia.
Il tre settembre, alla fine di un incontro tra il presidente Piñera e i partiti dell’arco parlamentare, la leader del Ppd (Partito per la democrazia) Carolina Tohá, ex ministro portavoce del governo della presidente socialista Michelle Bachelet ed esponente della Concertación por la democracia (la coalizione di centro-sinistra che ha governato il paese per vent’anni), ha apprezzato l’incontro e la disponibilità del capo dello stato nel voler perseguire una soluzione al «conflitto che vede come protagonisti i mapuche». La Tohá ha aggiunto che il suo gruppo «sosterrà la richiesta di dialogo affinché si che crei un ponte con i comuneros che stanno facendo lo sciopero della fame».
Carolina Tohá sa bene che durante il governo di cui è stata ministro e durante la precedente legislatura, così come durante la dittatura di Pinochet, e risalendo fino al 1810 - anno in cui i figli e i nipoti dei colonizzatori decisero l’indipendenza del Cile -, nulla è mai stato fatto per fermare il saccheggio delle terre, lo spogliazione e l’umiliazione del popolo mapuche.
Agli occhi di tutti i governi del Cile i mapuche sono sempre stati dei potenziali rivoltosi da tenere sottomessi e repressi. In Cile per lo meno la destra esprime con chiarezza la sua rozza ideologia, come ha fatto capire Juan Antonio Coloma, il portavoce dell’Udi (Unione democratica indipendente, il partito storicamente pinochettista) nel corso dell’incontro con il capo dello stato. Coloma ha infatti annunciato che il suo schieramento «farà uno sforzo per risolvere questo conflitto», ma ha precisato che si tratta «di un problema ereditato dalle amministrazioni precedenti e che non merita una revisione della legge antiterrorismo». Il cinismo è la grammatica del razzismo cileno.
Scrivendo del righe e ricordando il quattro settembre di quarant’anni fa, mi torna alla memoria l’aroma di una notte quasi primaverile, una notte di serena allegria, quando avevo vent’anni: c’ero anche io in mezzo a quella folla di donne e uomini umili, in gran parte giovani, che si abbracciavano raccolti davanti alla casa della Federazione studentesca del Cile. Aspettavamo che Salvator Allende accendesse il nostro sogno rivoluzionario di trasformazione della società. Non ce l’abbiamo fatta, non ci siamo riusciti, ma ce l’abbiamo davvero messa tutta. Molti di noi hanno pagato con la vita il tentativo di rendere il Cile un paese giusto, che rispettasse le legittime rivendicazioni del popolo mapuche.
Mi piacerebbe ricordare allegramente quei momenti, ma non posso perché in questo quattro settembre trentadue comuneros mapuche, Gente della Terra, prigionieri politici della capitale, stavano rischiando la vita con un digiuno che durava ormai da cinquantaquattro giorni. Chiedono sia fatta giustizia, e per la nazione mapuche la giustizia è molto più che un fascicolo di norme e leggi.
E’ la loro terra, terra sacra, benedetta, amata: questa è la questione di fondo che i discendenti dei coloni e degli europei delle diverse latitudini venuti a usurpare le loro terre non vogliono capire.
Traduzione di Valentina Manacorda