Orazio Carabini, Il Sole 24 Ore 21/9/2010, 21 settembre 2010
IL RICHIAMO DELLA FORESTA CLIENTELARE
Solo il finale è ancora da scrivere. Alessandro Profumo potrebbe lasciare UniCredit, la grande banca italiana di cui è amministratore delegato. Se lo farà, non se ne andrà di sua volontà. Molti dei maggiori soci lo hanno "sfiduciato": sulla carta sembra non gli resti che prenderne atto. Ma Profumo non ha deposto le armi pur sotto una campagna di voci che ieri cercava già di freddarlo.
È inutile arzigogolare sugli eventi che hanno portato al braccio di ferro. Un solo dato va messo oggi agli atti, prima dello show down che sarà, come spesso nella finanza, senza esclusione di colpi. Profumo sta combattendo una guerra d’indipendenza. Se perde, questo conflitto potrebbe avere un esito preoccupante, con la politica a tentare subito di riconquistare zone franche di potere nel sistema bancario italiano.
Profumo si è messo in cerca di soci che lo sostengano contro chi gli vuol suggerire a chi prestare i soldi, non con l’occhio allo sviluppo ma a interessi extraeconomici. Che siano libici, o emiri, o cinesi poco gli interessa, purché badino ai risultati di un gruppo bancario che è leader in Italia e tra i primi in Europa. E che, per inciso, egli stesso ha contribuito a costruire promuovendone la massiccia espansione all’estero e partecipando al consolidamento del sistema italiano tanto lodato da tutti nei giorni neri della crisi.
La "nouvelle vague" delle fondazioni interventiste non gli va giù, tanto più che non è troppo "nouvelle" visto che rimette in onda vecchie pratiche degli anni passati. L’opinione pubblica italiana si era abituata al ruolo di azionisti strategici, saggi e lungimiranti, che le fondazioni sembrava si fossero date. Ampi riconoscimenti in questo senso sono arrivati dal governatore della Banca d’Italia Draghi e dall’ex-ministro dell’Economia Padoa-Schioppa. E il ministro Tremonti, a lungo avversario delle fondazioni, ha rinunciato alla guerriglia verbale, apprezzandone responsabilmente la collaborazione. Ora il vento gira. Sarà stata la crisi, con la stretta creditizia che si è portata dietro. Sarà l’impronta "decisionista" dei politici che cercano egemonia al Nord. Fatto sta che le fondazioni cambiano pelle. Il dottor Jekyll, che per vent’anni ha dialogato con il management, in alcune realtà (non tutte per fortuna) lascia il posto a un mister Hyde che pretende d’intromettersi nella gestione, per assecondare i desideri delle solite clientele. Le fondazioni rischiano così di diventare quello che non si voleva: il cavallo di Troia della politica nelle banche.
La questione, cruciale, è tutta qui. Profumo è un essere umano, un manager con pregi e difetti. Ha commesso degli errori, di gestione e di personalità. Tuttavia, dopo mesi in cui è stata sfruttata ogni occasione per metterlo in discussione (dalla ricapitalizzazione ai Tremonti bond, dal progetto del "bancone" alla scelta del country manager, fino al pacchetto libico) non è di qualità del management che si sta discutendo. Il talento di Profumo non c’entra: UniCredit deve essere gestita come una "qualunque" popolare o la sua governance deve corrispondere agli standard internazionali che vogliamo ricomporre dopo la grande mareggiata della crisi?
Voce interessate, furbi e sempliciotti insieme obiettano: «Basta con questi manager autoreferenziali che guadagnano un sacco di soldi, ma non non sono capaci di far arrivare i prestiti a famiglie e imprese, si fanno travolgere dalla crisi finanziaria e non pagano i dividendi ai soci, comprese le fondazioni che di quei dividendi hanno bisogno come del pane per la loro attività di erogazione». In buona o in cattiva fede, l’obiezione è fuori bersaglio: nessuno contesta agli azionisti il diritto e il dovere di scegliere il miglior capo possibile per la loro banca. E nessuno sottovaluta, di questi tempi, il rischio di una UniCredit public company in balia solo dei fondi sovrani e degli investitori più speculativi.
La posta in gioco, con le dimissioni di Profumo che in tanti davano già ieri per scontate, però potrebbe essere ancora più delicata: l’indipendenza delle banche dalla politica. Un principio cui non dobbiamo rinunciare.