Walter Siti, La Stampa 19/9/2010, 19 settembre 2010
Domenica scorsa è andato in onda su La7 Mi scusi, avvocato Ambrosoli, un monologo che Antonello Piroso aveva tenuto il 31 agosto (riportato nel fuoco della cronaca da un’infame e sincera uscita di Giulio Andreotti)
Domenica scorsa è andato in onda su La7 Mi scusi, avvocato Ambrosoli, un monologo che Antonello Piroso aveva tenuto il 31 agosto (riportato nel fuoco della cronaca da un’infame e sincera uscita di Giulio Andreotti). Il programma era commovente e catturava l’attenzione dal principio alla fine; appassionato e preciso, Piroso seguiva il puntiglio e l’onestà di Ambrosoli fino all’assassinio, senza nascondere i lati anche poco simpatici del suo carattere. Utilizzava con parsimonia i contributi filmati (dal Divo e da Un eroe borghese), ammutoliva ascoltando una telefonata di minacce, indicava sulla lavagna gli amici e i nemici, senza arretrare di fronte all’ingenuità di definirli «l’impero del bene» contro «l’impero del male». Raccontava una storia di 30 anni fa ma ammiccava al presente; deprecando la pigrizia dei cittadini che non seppero condannare elettoralmente la Dc nemmeno dopo scandali così intollerabili, ha detto «macché, non lo fecero, né allora né…» - e alla sapiente preterizione è scattato l’applauso. Si è fatto perdonare anche alcuni effettacci (la barba lunga di qualche giorno a indicare impegno e noncuranza delle convenzioni, la poesia nel finale); quando sul palco è salito il figlio di Ambrosoli accompagnato dal nipotino, gli occhi lucidi di Piroso non erano finti. Piroso non è un attore; la sua performance non può essere assimilata al «teatro di narrazione» di cui Marco Paolini è il rappresentante più noto. Paolini ricostruisce un mondo con la sua voce e il suo corpo: riproduce mille personaggi, rende sensibile lo spazio, insomma fa illusionismo. Ma il programma dell’altra sera non era nemmeno un reportage giornalistico, non assomigliava alla ricostruzione che per esempio della stessa vicenda ha fatto Minoli a La storia siamo noi. Che diavolo è questo genere nuovo che sta affermandosi in tv? Me lo sono chiesto anche dopo la lezione di Saviano da Fazio, me lo chiedo davanti a certi monologhi di Travaglio. Credo che la risposta la si debba cercare nell’antico: in tivù sta rinascendo l’antica oratoria, proprio quella di cui parlavano Cicerone e Quintiliano. Nella lingua comune, «oratoria» puzza di retorico e di ruffiano, ma è un’arte dalle radici nobili: è l’arte di convincere, appoggiandosi ai fatti ma disponendoli con abile strategia; fa appello alla ragione degli ascoltatori ma non disdegna la mozione degli affetti. Non per nulla Quintiliano suggeriva agli oratori di andare a scuola dagli attori; ma aggiungeva che molto dell’effetto è legato alla credibilità dell’oratore, al suo riconosciuto coraggio, alla moralità. Ognuno ha il suo stile: Piroso è un attaccante, Travaglio gioca d’ironia (in Passaparola, su Current, siede a una scrivania con sfondo di libri, a metà tra la conversazione rilassata e il messaggio presidenziale); Saviano e Celestini si tengono più accosto alla letteratura orale, in due modi diversissimi. Ma questo genere ibrido è uno degli esiti più interessanti di quel mezzo ibrido che è la tivù.