Mattia Bagnoli - Marco Sodano - Marco Belpoliti, La Stampa 19/9/2010, 19 settembre 2010
Il packaging perfetto? Secondo Bruno Munari era la buccia dell’arancia. Nel celebre libretto «Good Design», 1963, scriveva che «L’insieme degli spicchi è raccolto in un “imballaggio” ben caratterizzato sia come materia sia come colore: abbastanza duro alla superficie esterna e rivestito con un’imbottitura morbida interna di protezione»
Il packaging perfetto? Secondo Bruno Munari era la buccia dell’arancia. Nel celebre libretto «Good Design», 1963, scriveva che «L’insieme degli spicchi è raccolto in un “imballaggio” ben caratterizzato sia come materia sia come colore: abbastanza duro alla superficie esterna e rivestito con un’imbottitura morbida interna di protezione». L’imballaggio - sottolineava - è straordinario anche per praticità: si può aprire molto semplicemente senza dover consultare le istruzioni. Madre natura, insomma, era il modello per ogni designer. MATTIA BAGNOLI LONDRA Care vecchie scatole di cereali addio. A prendere un bel respiro e consegnare alla storia uno dei simboli della tavola anglosassone è il gigante dei supermercati Sainsbury’s. Che dopo un anno di test pilota, conti col pallottoliere, studi di mercato per capire se si rischiasse la rivolta dei clienti (ai britannici impressiona più sostituire il tradizionale doppio rubinetto del lavabo con il miscelatore, che il matrimonio gay) ha deciso di dare il via libera alla rivoluzione. A partire da dicembre i cereali modello «classico» di Sainsbury’s si troveranno solo in busta: l’ecologia lo chiede. E i clienti sono d’accordo. Senza contare che i costi della distribuzione scenderanno. Quindi tutti contenti. Tanto che, col tempo, l’intera gamma di cereali prodotti dal gigante dei supermercati, fatta eccezione per quelli a biscotto, che altrimenti si romperebbero, perderanno il contenitore rettangolare. «Così si perde un’icona della prima colazione britannica - spiega Stuart Lendrum, capo del packaging di Sainsbury’s - ma in questo modo risparmieremo cartone, spazi e ridurremo il nostro consumo di anidride carbonica». Nella grande distribuzione ogni piccolo dettaglio ha una grande ricaduta: i clienti useranno un minor numero di sacchetti di plastica perché il volume occupato dai cereali sarà ridotto. E anche il consumo di carburante dei camion scenderà visto che si potrà caricare più prodotto a ogni viaggio. Senza contare che per ciò che riguarda la sola linea «classic», i risparmi ammonteranno a più di 165 tonnellate all’anno. Vantaggi che hanno spinto Sainsbury’s a rischiare. «La risposta dei nostri clienti alla novità introdotta nella linea Rice Pops, venduta per oltre un anno nella sola busta di plastica, è stata ottima - ha sottolineato Lendrum - perciò abbiamo deciso di procedere con gli altri prodotti». Sainsbury’s sta cercando di convincere altri grandi marchi produttori di cereali - uno su tutti, la Kellogg’s - a seguire l’esempio. Ma è un tentativo andato a vuoto. Il colosso americano non ha intenzione, quantomeno nell’immediato futuro, di abbandonare la celebre scatola col gallo. «I nostri studi - ha detto al Times un portavoce dell’azienda - mostrano che i fiocchi si rovinano se non c’è la protezione di cartone. Inoltre le nostre scatole e le buste contenitive sono interamente riciclabili. Se si usa solo il sacchetto per impacchettare i cereali bisogna usare una plastica più spessa, più difficile da smaltire». E visto che ogni giorno i britannici consumano 2,8 milioni di scodelle di Kellogg’s Corn Flakes non si tratta di numeri da poco. Non è la prima volta che Sainsbury’s decide di compiere una scelta «unilaterale»: anche il latte è stato sfrattato dalle confezioni di plastica per finire in buste sottili. «Eliminare le scatole dei cereali - conclude Lendrum - ci aiuterà a tagliare il packaging di un terzo entro il 2015». *** Aria di festa, è arrivato il televisore nuovo. Prendi le forbici: taglia la fascetta di plastica, il nastro adesivo, stacca le graffette. Rompi il guscio di polistirolo, apri il bustone di plastica, smonta le alette di cartone, litiga con sacchetti e sacchettini sempre più piccoli: batterie, telecomandi, cavi colorati, manuali, garanzia, compact disc per l’installazione. Finalmente, sfiori la gommapiuma sottile grigia che avvolge lo schermo. Ogni anno un italiano butta nel cassonetto 546 chili di rifiuti, dice l’Istituto superiore per la protezione dell’ambiente. Circa 250 sono di imballi. Quando vai a fare la spesa ti porti a casa otto etti di carta e plastica che incidono sul prezzo finale da un minimo del 20 a un massimo del 70%. E spesso inquinano. Uno spreco noto da tempo. Nel 1989 Wal Mart intimò ai fornitori di procurare prodotti sicuri e imballati con materiali riciclabili o biodegradabili. La catena ha 6500 grandi magazzini in quindici paesi, e fa vendite per oltre 350 miliardi di dollari l’anno (è prima al mondo e la seconda, Carrefour, supera di poco i cento miliardi): i fornitori provarono ad accontentarla. Tra consumo di energia e produzione di rifiuti, l’impatto del gigante Wal Mart era ciclopico e la pressione dell’opinione pubblica cominciò a pesare sugli incassi: nacque così una delle prime linee di prodotti ecologici - contenuto e contenitore - riconoscibili per l’etichetta verde. Wal Mart non fece una grande figura quando, un paio d’anni dopo, venne fuori un rotolo di carta igienica che di riciclato aveva il cilindro interno di cartone, mentre la carta era sbiancata con il cloro. Le etichette pseudoecologiche sparirono in fretta. Fino al 2005 quando Lee Scott, presidente e direttore generale di Wal Mart, informò un milione e mezzo di associati (i dipendenti) e circa 60mila rappresentanti delle aziende fornitrici che era necessaria una grande rivoluzione. Fissò tre punti: elettricità al 100% da fonti rinnovabili, zero produzione di rifiuti non riciclabili, sugli scaffali solo merci che sostengono le risorse dell’azienda e dell’ambiente. E la corsa di Wal Mart ripartì. Non è solo una questione di ambiente. Le aziende scommettono sui grossi investimenti quando è in palio la possibilità di fare profitti di conseguenza. Tagliare sulle scatole significa anche ridurre i costi di produzione. A patto di essere pronti a rinunciare al fascino di una confezione colorata. Tra i primi ci ha provato, sul finire degli anni Cinquanta, il titolare di un mobilificio svedese, Ingvar Kamprad, mister Ikea. Puntò tutto sulle cose semplici - funzionano - e cominciò a produrre oggetti essenziali che si potessero montare a casa. Servirono scatole che entrassero nelle automobili dei clienti, confezioni piatte con pochi fronzoli. Per «Mister Ikea» è sempre stato un punto d’onore quello di risparmiare su nastro adesivo, graffette e legacci assortiti. E naturalmente non gli è sfuggita l’importanza - da scandinavo - di usare esclusivamente materiale riciclato o riciclabile. La svolta nel 1958: Ikea apre un nuovo negozio ad Almhult (nello Smaland, sud della Svezia) di 6700 metri quadrati, e assume il centesimo dipendente. Nel 1965 parte il servizio self service, negli anni Settanta comincia la conquista del mondo. Oggi l’impero delle scatole piatte ha 267 negozi in 25 paesi (il dato è riferito alla chiusura dell’anno fiscale 2009), ci lavorano in 123mila, e 590 milioni di persone hanno curiosato tra cucine, divani e camerette solo l’anno scorso. Fatturato, 21 miliardi di euro e rotti. Il catalogo è un bestseller mondiale: l’ultima edizione ha sfiorato i 200 milioni di copie. Meglio della Bibbia. Tutto questo movimento fa un gran bene anche a chi le scatole le produce (più o meno verdi che siano). Il settore vale un giro d’affari da 20 miliardi l’anno solo in Europa, fabbriche che ogni anno trasformano 3 milioni e mezzo di tonnellate di metallo, plastica, carta e vetro in vasetti per le olive, blister per i medicinali o contenitori per le uova. Il campione europeo di specialità è Amcor: fa girare più di quattro miliardi di dollari, ha 14mila addetti e una cinquantina di stabilimenti in 17 Paesi. Intanto la scatola del televisore nuovo, dopo esser stata un paio di giorni sul balcone, finisce in cantina: «Dovesse esserci qualche guasto, lo riportiamo imballato». Nella migliore delle ipotesi resterà anni a prendere polvere tra le bottiglie di vino e la riserva di olio buono. Tra un paio di decenni - se l’umidità sarà stata clemente - un figlio o un nipote la userà per il primo trasloco. Dello schermo piatto nessuno si ricorderà più. Le buste di plastica, invece, navigheranno placide in vista della gigantesca isola di rifiuti che galleggia da qualche parte - laggiù - nel Pacifico del Sud. *** E’ solo col cartellino del prezzo, ha scritto Walter Benjamin, che la merce fa il suo ingresso nel mercato. Oggi ci resta e resiste grazie al packaging, ovvero alle forme dell’apparire, che dal cartellino s’estendono all’intera superficie e volume che circonda l’oggetto offerto in vendita. Quello cui noi assistiamo, quando visitiamo un negozio o un megastore, è prima di tutto uno spettacolo di cui l’imballaggio costituisce una forma espressiva peculiare. Nell’esposizione il valore d’uso dell’oggetto, come ci aveva avvisato il filosofo di Treviri, scompare completamente a vantaggio del valore di scambio. E se tutto oggi tende a diventare «immateriale», tuttavia gli oggetti che raggiungono le nostre abitazioni non possono rinunciare alle forme dell’apparire garantite dal packaging. Anni fa uno studioso di semiotica ha sostenuto che l’imballaggio è la televisione prima della televisione. E se i visori diventano piatti, e sempre più sottili, anche il packaging evolve verso forme smart, che consentono di risparmiare materiali e tecnologie, e hanno un impatto più positivo sull’ambiente: inquinano meno. Ma anche questa riduzione dell’imballaggio ha un suo perché: design e maketing si alleano per sorprenderci, per renderci più ecologici, più cool. Una nuova stagione del packaging è iniziata, dominata da un francescanesimo di ritorno. Capita sempre più spesso di ricevere al ristorante il pane dentro un sacchetto, invece che in un cestello di vimini, o di metallo. Ecco il nuovo packaging dell’essenzialità: Sloow food versione Mulino Bianco.