Irene Maria Scalise, la Repubblica 19/9/2010, 19 settembre 2010
milano cita i grandi filosofi ma avrebbe voluto essere Elvis Presley. Recita con voce profonda ma quando non è sul set s´inceppa sulle parole
milano cita i grandi filosofi ma avrebbe voluto essere Elvis Presley. Recita con voce profonda ma quando non è sul set s´inceppa sulle parole. Ha uno sguardo intenso ma soffre di una rara malattia agli occhi che gli impedisce di vedere il centro delle cose. Scrive libri ed è diventato famoso come mattatore. Ha paura di volare eppure è sempre in viaggio. È Filippo Timi, trentasei anni, nuovo mito trasversale. Specialmente per le donne. Lui, onesto, ammette: «Seduco a trecentonovanta gradi». Alto, spalle larghe, barba e capelli arruffati, quarantasei di piede, Timi è un uomo ingombrante. Si racconta sempre divertito e, anche quando esita sulle sillabe, sdrammatizza. Negli ultimi tre anni ha scelto di vivere a Milano, città che ama perché la trova comodissima. Lungo i Navigli si muove disinvolto, sorriso aperto e passi lunghi. È umbro. Ponte San Giovanni, appena fuori Perugia. Ama la sua terra e quando torna a casa è sempre un´emozione. «Soprattutto per mia madre che si agita come una bambina appena legge un articolo che mi riguarda sul Corriere dell´Umbria. Sospetto però che l´orgoglio aumenti quando sulla stessa pagina magari compare anche una foto della Bellucci», compatriota di Città di Castello. Un´infanzia semplice quella di Timi: «Da bambino facevo parte del gruppetto degli sfigati, soffrivo anche di ernia e i medici avevano ordinato ai miei di non farmi piangere: mia sorella mi odiava perché mi vedeva come un privilegiato. Ero il classico "ciccio" che non ha mai avuto il motorino. Quel tipo di bambino che fa tenerezza agli adulti e che i coetanei sfottono». Mamma infermiera e papà operaio, Filippo sognava in grande: «In un tema di quinta elementare scrissi che da grande mi sarebbe piaciuto essere una "specie" di Elvis Presley per avere tante ragazze che mi chiedessero l´autografo. Finita la scuola, invece, mi sono messo a studiare filosofia e al secondo esame un professore mi ha cacciato perché avevo deciso di applicare con lui il metodo di Socrate, rispondendo alle domande con un altro quesito». Una pessima partenza che lo fa velocemente traslocare all´istituto d´arte. «Ero tra i più bravi, facevo duecentocinquanta disegni alla settimana con gli insegnanti che mi passavano i fogli di nascosto perché consumavo carta in modo compulsivo. Lì mi si è aperto un mondo. Ho scoperto quanto era meraviglioso studiare, e ho cominciato a immaginare una vita d´artista - anche se mia madre era sempre lì a ricordarmi che i soldi per mantenermi non c´erano». Poi, come a volte succede, tutto si risolve per caso: «Sono andato ad accompagnare un mio amico a un provino e hanno scelto me». Un successo inaspettato, nonostante l´evidente balbuzie. «Non capisco cosa accade quando recito ma ogni esitazione sparisce, forse perché entro nelle cose con il cuore e con gli occhi. Anzi, è proprio quell´incognita nella parola che mi dà un punto in più nel rapporto con il pubblico». Giorgio Barberio Corsetti, il regista, si appassiona a questo strano personaggio. Lo prende nella sua compagnia teatrale e gli cambia la vita. «Era un modo per fuggire dal niente. E dopo un mese di prova ho potuto interpretare Edipo il giovane con lo stesso Corsetti, che ancora recitava, e un anziano Franco Citti che interpretava il vecchio e mi parlava in romanesco. Mi sembrava di sognare. Lavoravo senza aver fatto nessuna scuola. Solo energia pura». In quegli anni viene fuori però il problema agli occhi. Una malattia degenerativa, la sindrome di Stargardt, che gli complica i sogni. «Ogni tanto penso a quanto mi piacerebbe guidare», racconta con un sorriso. «Con il computer mi sono abituato a usare i caratteri quaranta e grazie all´iPhone riesco a inviare anche i messaggi». Anzi, è proprio grazie ai suoi caratteri al cubo se è diventato anche scrittore. «Scrivo in continuazione, un´urgenza sotto la pelle che forse è un modo per sfogarsi». Sceneggiature, pensieri, testi teatrali ma soprattutto tre libri tra cui Tuttalpiù muoio, concepito a quattro mani con Edoardo Albinati. Un libro da cui ha tratto e interpretato l´adattamento teatrale La vita bestia. «C´era un po´ d´incoscienza nel fare un passo così impegnativo, poi quando l´ho visto in libreria mi è preso un attacco di panico. Anche la rappresentazione non è stata semplice, un monologo di due ore con temi molto personali». Il silenzio della mattina milanese è rotto da una telefonata. Filippo Timi si alza dal tavolo e per non disturbare l´atmosfera sonnacchiosa del vecchio caffè milanese, esce dal locale. La città risplende di quella luce speciale che ogni tanto la illumina. Una breve pausa e ricomincia a raccontarsi. «A ventiquattro anni, nel ´99, ho debuttato nel cinema con un film di Anna Negri. Un´esperienza indimenticabile». Da quel momento molti registi lo scoprono e sembrano innamorarsi di questo ragazzone. Improvvisamente è ovunque. In memoria di me di Saverio Costanzo, in Saturno contro di Ferzan Ozpetek, ne I demoni di San Pietroburgo di Giuliano Montaldo, in Signorina Effe di Wilma Labate, in Come Dio comanda di Gabriele Salvatores. E naturalmente in Vincere di Marco Bellocchio. «Al cinema ho portato molto del teatro, soprattutto la forza espressiva del mio corpo, forse perché non mi fido della parola. Attraverso la parola spesso tradisci quello che vuole dire il personaggio, e proprio per costruire un ruolo "credibile" non mi baso mai su quello che il personaggio dice». La continua oscillazione tra set e palcoscenico non lo spaventa. Anzi: «Il teatro è corpo a corpo, un modo di fare l´amore con il pubblico. Al cinema invece basta pensare una cosa e la macchina ti riprende, non devi avere coscienza ma solo farti rubare. C´è un tempo cinematografico che è diverso da quello del teatro ma, soprattutto, da quello della vita. Per pochi fortunati è un dono naturale e, tra questi, sicuramente c´è Elio Germano». Che appena vinto la Palma d´oro a Cannes al telefono gli ha detto: «Ahò, Filì, sto vicino a Javier Bardem: ma lo sai che siete identici!». Con la televisione ha un rapporto sincopato. Generalmente se ne dimentica, poi ogni tanto s´appassiona a qualche serie e allora diventa un´ossessione. Non fa altro per giorni. «È che non conosco il piacere della sosta. Se faccio tre cose mi concentro meglio che se ne affrontassi una sola, adoro lavorare per sottrazione». È ansioso, ma in un modo tutto suo. «Non ho timori per me ma mi pongo domande impressionanti del tipo: dove andremo a finire?». Nella vita è quasi sempre innamorato: «L´amore lo concepisco in modo francescano, non ho il senso dell´appartenenza ma voglio essere amato a tutti i costi. Anche perché non puoi recitare in teatro senza che ti batta il cuore». Sino ad ora non ha approfittato del suo successo con le donne. Casomai il contrario. «Ho troppo rispetto per me stesso per abbandonarmi alle avventure. Senza contare che la mia generazione è stata inibita dalla paura dell´Aids e questo mi ha parecchio frenato». Il mondo femminile lo affascina, anche se sa bene che ogni sforzo per comprenderlo «è inutile». «Carmelo Bene diceva che far piangere una donna è una cosa irreparabile e io sono pienamente d´accordo con lui. Ma per esempio non capisco cosa passa nella testa di Nina, una delle protagoniste del mio primo libro, che non ama più e continua fare l´amore con il marito. Perché le donne spesso accettano una storia fatta di un rapporto sessuale che equivale a uno stupro?». Del successo non ha ancora la sicurezza paludata. «È bello e gratificante sapere che fai un lavoro che smuove qualcosa negli altri e che degli estranei spendono energie per venire a vederti e per farti i complimenti. Spero solo di mantenere questa leggerezza che mi fa aspettare ancora con curiosità che accadano le cose». Della malattia e della morte cerca razionalmente di farsene una ragione, ma l´istinto bestiale è di terrore puro: «Se penso alla morte vorrei allungare un braccio e aggrapparmi a Dio. Da un po´ ho anche timore di volare. Nei viaggi lunghi mi ripeto frasi scontate - tipo "nulla può accadere sino a quando non arriva il tuo momento" - . Poi però mi assale il dubbio atroce che "il momento" sia arrivato per il mio vicino. E allora entro nel panico». Di figli ne vorrebbe, ma non subito. «Quando torno in Umbria e vedo le figlie gemelle di mia sorella le trovo meravigliose, ma molto impegnative. E poi ancora non ho un rapporto stabile. So solo che un giorno sarò padre». L´estate scorsa ha portato ancora in tournée Il popolo non ha il pane? Diamogli le brioche, di cui è autore, regista (assieme a Stefania De Santis) e interprete. Una rilettura di Amleto. Gioco e ira. Struggimento e provocazione. «Da quando un attore comincia a fare teatro sogna d´interpretare Amleto, e io su quel palcoscenico ogni sera soffro perché muoio, uccido, amo. E la sera successiva soffro nuovamente. Uso la risata come specchio della vita e pur essendomi basato sulle tragedie di Shakespeare e sui testi filosofici di Agamben, rileggo tutto a modo mio». Dopo i mesi caldi dedicati a premi e festival, dopo aver partecipato al film che Michele Placido ha presentato fuori concorso a Venezia Vallanzasca. Gli angeli del male e aver recitato un cammeo in La solitudine dei numeri primi, ora ci sono le prime riprese del film di Cristina Comencini, Quando la notte. Un altro inizio per Filippo Timi.