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 2010  agosto 26 Giovedì calendario

1 - 2026, LA VITTORIA DEI BARBARI

Uno scrittore viaggia nel futuro, alla scoperta di un’èra dominata dalla superficialità. Con una sorpresa: non sarà poi così male.

Ci crediate o no, questo articolo l’ho scritto nel luglio 2026, cioè fra sedici anni. Diciamo che mi son portato un po’ avanti col lavoro. Prendetela così.
Ecco l’articolo.
Alle volte si scrivono libri che sono come duelli: finita la sparatoria guardi chi è rimasto in piedi, e se non sei tu, hai perso. Quando ho scritto I barbari, venti anni fa, poi mi son guardato attorno ed erano ancora tutti lì, belli in piedi. Aveva tutta l’aria di una disfatta, ma la cosa non mi quadrava. Allora mi son seduto e ho aspettato. Il gioco è stato vederli cadere uno ad uno, tardivi ma stecchiti. Ci vuole solo pazienza. Alle volte agonizzano molto elegantemente. Alcuni franano a terra tutto d’un colpo. Non la prenderei come una vittoria, probabile che cadano per consunzione loro, non per i miei proiettili: ma certo non avevo mirato male, mi viene da dire, a parziale consolazione.
L’ultimo che ho visto crollare, dopo aver vacillato a lungo con grande lentezza e dignità, mi ha emozionato, perché lo conoscevo bene. Credo di avere in passato anche lavorato per lui (con pistole caricate a parole, come sempre). Più che uno, è una: la profondità. Il concetto di profondità, la pratica della profondità, la passione per la profondità. Forse qualcuno se li ricorda, erano animali ancora in forma, ai tempi dei Barbari. Li alimentava l’ostinata convinzione che il senso delle cose fosse collocato in una cella segreta, al riparo dalle più facili evidenze, conservato nel freezer di una oscurità all’indagine ostinata. Le cose erano alberi - se ne sondavano le radici. Si risaliva nel tempo, si scavava nei significati, si lasciavano sedimentare gli indizi. Perfino nei sentimenti si aspirava a quelli profondi, e la bellezza stessa la si voleva profonda, come i libri, i gesti, i traumi, i ricordi, e alle volte gli sguardi. Era un viaggio, e la sua meta si chiamava profondità.

La ricompensa era il senso, che si chiamava anche senso ultimo, e ci concedeva la rotondità di una frase a cui, anni fa, credo di aver sacrificato una marea di tempo e luce: il senso ultimo e profondo delle cose.
Non so quando, esattamente, ma a un certo punto questo modo di vedere le cose ha iniziato a sembrarci inadatto. Non falso: inadatto. Il fatto è che il senso consegnatoci dalla profondità si rivelava troppo spesso inutile, e talvolta perfino dannoso. Così, come in una sorta di timido preludio, ci è accaduto di mettere in dubbio che esistesse poi davvero un "senso ultimo e profondo delle cose". Provvisoriamente ci si orientò per definizioni più soft che sembravano rispecchiare meglio la realtà dei fatti. Che il senso fosse un divenire mai fissabile in una definizione ci sembrò, ad esempio, un buon compromesso. Ma oggi credo si possa dire che semplicemente non osavamo abbastanza, e che l’errore non era tanto credere in un senso ultimo quanto il relegarlo in profondità. Quel che cercavamo esisteva, ma non era dove pensavamo.

Non era lì per una ragione sconcertante che la mutazione avvenuta negli ultimi trent’anni ci ha buttato in faccia, emanando uno dei suoi verdetti più affascinanti e dolorosi: la profondità non esiste, è un’illusione ottica. È l’infantile traduzione in termini spaziali e morali di un desiderio legittimo: collocare ciò che abbiamo di più prezioso (il senso) in un luogo stabile, al riparo dalle contingenze, accessibile solo a sguardi selezionati, attingibile solo attraverso un cammino selettivo. Così si nascondono i tesori. Ma nel nasconderlo avevamo creato un Eldorado dello spirito, la profondità, che in realtà non sembra mai essere esistito, e che alla lunga sarà ricordato come una delle utili menzogne che gli umani si sono raccontati. Piuttosto scioccante, non c’è santo.

Infatti uno dei traumi cui la mutazione ci ha sottoposto è proprio il trovarsi a vivere in un mondo privo di una dimensione a cui eravamo abituati, quella della profondità. Ricordo che in un primo momento le menti più avvedute avevano interpretato questa curiosa condizione come un sintomo di decadenza: registravano, non a torto, la sparizione improvvisa di una buona metà del mondo che conoscevano: oltretutto, quella che veramente contava, che conteneva il tesoro. Da qui l’istintiva inclinazione a interpretare gli eventi in termini apocalittici: l’invasione di un’orda barbarica che non disponendo del concetto di profondità stava ridisponendo il mondo nell’unica residua dimensione di cui era capace, la superficialità. Con conseguente dispersione disastrosa di senso, di bellezza, di significati - di vita. Non era un modo idiota di leggere le cose, ma ora sappiamo con una certa esattezza che era un modo miope: scambiava l’abolizione della profondità con l’abolizione del senso. Ma in realtà quello che stava accadendo, tra mille difficoltà e incertezze, era che, abolita la profondità, il senso si stava spostando ad abitare la superficie delle evidenze e delle cose. Non spariva, si spostava. La reinvenzione della superficialità come luogo del senso è una delle imprese che abbiamo compiuto: un lavoretto d’artigianato spirituale che passerà alla storia.

Sulla carta, i rischi erano enormi, ma va ricordato che la superficie è il luogo della stupidità solo per chi crede nella profondità come luogo del senso. Dopo che i barbari (cioè noi) hanno smascherato questa credenza, collegare automaticamente superficie e insignificanza è diventato un riflesso meccanico che tradisce un certo rincoglionimento. Dove molti vedevano una semplice resa alla superficialità, molti altri hanno intuito uno scenario ben differente: il tesoro del senso, che era relegato in una cripta segreta e riservata, ora si distribuiva sulla superficie del mondo, dove la possibilità di ricomporlo non coincideva più con una discesa ascetica nel sottosuolo, regolata da un’élite di sacerdoti, ma da una collettiva abilità nel registrare e collegare tessere del reale. Non suona poi tanto male. Soprattutto sembra più adatto alle nostre abilità e ai nostri desideri. Per gente incapace di stare ferma e di concentrarsi, ma in compenso velocissima nello spostarsi e nel collegare frammenti, il campo aperto della superficie sembra la sede ideale dove giocarsi la partita della vita: perché mai dovremmo giocarcela, e perderla, in quei cunicoli nel sottosuolo che si ostinavano a insegnarci a scuola?

Così non sembriamo aver rinunciato a un senso, nobile e alto, delle cose: ma abbiamo iniziato a inseguirlo con una tecnica diversa, cioè muovendoci sulla superficie del mondo con una velocità e un talento che gli umani non hanno mai conosciuto. Ci siamo orientati a formare figure di senso mettendo in costellazione punti del reale attraverso cui passiamo con inedita agilità e leggerezza.
L’immagine del mondo che i media restituiscono, la geografia di ideali che la politica ci propone, l’idea di sapere che il mondo digitale ci mette a disposizione non hanno ombra di profondità: sono collezioni di evidenze sottili, perfino fragili, che organizziamo in figure di una certa potenza. Le usiamo per capire il mondo. Perdiamo capacità di concentrazione, non riusciamo a fare un gesto alla volta, scegliamo sempre la velocità a discapito dell’approfondimento: l’incrocio di questi difetti genera una tecnica di percezione del reale che cerca sistematicamente la simultaneità e la sovrapposizione degli stimoli: è ciò che noi chiamiamo fare esperienza. Nei libri, nella musica, in ciò che chiamiamo bello guardandolo o ascoltandolo, riconosciamo sempre più spesso l’abilità a pronunciare l’emozione del mondo semplicemente illuminandola, e non riportandola alla luce: è l’estetica che ci piace coltivare, quella per cui qualsiasi confine tra arte alta e arte bassa va scomparendo, non essendoci più un basso e un alto, ma solo luce e oscurità, sguardi e cecità. Viaggiamo velocemente e fermandoci poco, ascoltiamo frammenti e mai tutto, scriviamo nei telefoni, non ci sposiamo per sempre, guardiamo il cinema senza più entrare nei cinema, ascoltiamo reading in rete invece che leggere i libri, facciamo lente code per mangiare al fast food, e tutto questo andare senza radici e senza peso genera tuttavia una vita che ci deve apparire estremamente sensata e bella se con tanta urgenza e passione ci preoccupiamo, come mai nessuno prima di noi nella storia del genere umano, di salvare il pianeta, di coltivare la pace, di preservare i monumenti, di conservare la memoria, di allungare la vita, di tutelare i più deboli e di difendere il lardo di Colonnata. In tempi che ci piace immaginare civili, bruciavano le biblioteche o le streghe, usavano il Partenone come deposito di esplosivi, schiacciavano vite come mosche nella follia delle guerre, e spazzavano via popoli interi per farsi un po’ di spazio. Erano spesso persone che adoravano la profondità.
La superficie è tutto, e in essa è scritto il senso. Meglio: in essa siamo capaci di tracciare un senso. E da quando abbiamo maturato questa abilità, è quasi con imbarazzo che subiamo gli inevitabili sussulti del mito della profondità: oltre ogni misura ragionevole patiamo le ideologie, gli integralismi, ogni arte troppo alta e seria, qualsiasi sfacciata pronuncia di assoluto. Probabilmente abbiamo anche torto, ma sono cose che ricordiamo saldate in profondità a ragioni e sacerdozi indiscutibili che ora sappiamo fondati sul nulla, e ne siamo ancora offesi - forse spaventati. Per questo oggi suona kitsch ogni simulazione di profondità e in fondo sottilmente cheap qualsiasi concessione alla nostalgia. La profondità sembra essere diventata una merce di scarto per i vecchi, i meno avveduti e i più poveri.

Vent’anni fa avrei avuto paura a scrivere frasi del genere. Mi era chiaro perfettamente che stavamo giocando col fuoco. Sapevo che i rischi erano enormi e che in una simile mutazione ci giocavamo un patrimonio immenso. Scrivevo I barbari, ma intanto sapevo che lo smascheramento della profondità poteva generare il dominio dell’insignificante. E sapevo che la reinvenzione della superficialità generava spesso l’effetto indesiderato di sdoganare, per un equivoco, la pura stupidità, o la ridicola simulazione di un pensiero profondo. Ma alla fine, quel che è accaduto è stato soltanto il frutto delle nostre scelte, del talento e della velocità delle nostre intelligenze. La mutazione ha generato comportamenti, cristallizzato parole d’ordine, ridistribuito i privilegi: ora so che in tutto ciò è sopravvissuta la promessa di senso che a suo modo il mito della profondità tramandava. Sicuramente tra coloro che sono stati più svelti a capire e gestire la mutazione ce ne sono molti che non conoscono quella promessa, né sono capaci di immaginarla, né sono interessati a tramandarla. Da essi stiamo ricevendo un mondo brillante senza futuro. Ma come sempre è successo, ostinata e talentuosa è stata anche la cultura della promessa, e capace di estorcere al disinteresse dei più la deviazione della speranza, della fiducia, dell’ambizione. Non credo sia stolto ottimismo registrare il fatto che oggi, nel 2026, una cultura del genere esiste, sembra più che solida, e spesso presidia le cabine di comando della mutazione. Da questi barbari stiamo ricevendo un’impaginazione del mondo adatta agli occhi che abbiamo, un design mentale appropriato ai nostri cervelli, e un plot della speranza all’altezza dei nostri cuori, per così dire. Si muovono a stormi, guidati da un rivoluzionario istinto a creazioni collettive e sovrapersonali, e per questo mi ricordano la moltitudine senza nomi dei copisti medievali: in quel loro modo strano, stanno copiando la grande biblioteca nella lingua che è nostra. È un lavoro delicato, e destinato a collezionare errori. Ma è l’unico modo che conosciamo per consegnare in eredità, a chi verrà, non solo il passato, ma anche un futuro.