Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera 20/09/2010, 20 settembre 2010
I DUE AMORI DI EGIDIO ORTONA L’ITALIA E GLI STATI UNITI
Ho letto spesso nella storia recente il nome dell’ambasciatore Ortona. Immaginando che lei l’abbia conosciuto bene, vuole tratteggiarne la figura, ricordando dove e in che senso sia meritevole d’attenzione la sua opera?
Fernando Esposito fernesp1@gmail.com
Caro Esposito, una gran parte della carriera di Ortona è legata al suo rapporto con gli Stati Uniti dove passò, con diversi incarichi e intervalli, venticinque anni. Non fu soltanto consigliere dell’ambasciata d’Italia, rappresentante permanente alle Nazioni Unite e per otto anni ambasciatore a Washington. Fu l’uomo che spiegava agli americani i misteri della politica italiana e ai suoi connazionali gli incomprensibili meccanismi della politica degli Stati Uniti. Vi riuscì, credo, perché aveva un doppio amore — il suo Paese e l’America — a cui rimase fedele per tutta la vita. Dovette attraversare momenti difficili quando l’Italia democristiana sembrava a Washington poco affidabile e la politica americana appariva a Roma troppo bellicosa. Ma non ricordo un altro diplomatico della sua generazione che fosse altrettanto bravo nell’arte di tappare buchi, smussare angoli e riparare i danni provocati dalle gaffe degli uni e degli altri.
Scoprì gli Stati Uniti a 34 anni quando fu chiamato a fare parte di una missione economica italiana che approdò a Washington nell’autunno del 1944. All’origine di quel viaggio vi era una lettera con cui Ivanoe Bonomi, divenuto presidente del Consiglio dopo il trasferimento del governo nella capitale, chiedeva a Roosevelt di fare qualcosa per alleviare le clausole imposte all’Italia dall’armistizio «lungo» di Malta. Il presidente americano rispose invitando a Washington un gruppo «ufficioso» di rappresentanti tecnici per discutere di questioni economiche e finanziarie. Non era soltanto buon cuore. Di lì a poco Roosevelt si sarebbe candidato a un quarto mandato nelle elezioni presidenziali del 7 novembre, e un gesto di benevolenza per l’Italia gli avrebbe garantito il voto italo-americano. I «rappresentanti tecnici» furono tra gli altri Raffaele Mattioli, amministratore delegato della Banca commerciale, ed Enrico Cuccia, futuro presidente di Mediobanca. Ortona, dal canto suo, rappresentava ufficiosamente il ministero degli Esteri. Per il giovane diplomatico doveva essere una breve missione, ma durò quasi tre lustri, vale a dire gli anni del trattato di pace, del piano Marshall, del Patto atlantico, degli accordi per le basi americane in Italia e di quella grossa nuvola carica di pioggia che apparve nel cielo dei rapporti italo-americani quando Giovanni Gronchi, nel 1955, fu eletto alla presidenza della Repubblica.
Ho detto che l’America fu il piatto forte della brillante carriera di Ortona. Ma un anno prima della partenza per Washington, il giovane diplomatico aveva assistito, nascosto nelle quinte, al crollo del regime fascista. Nell’estate del 1943, dopo due anni in Dalmazia, era capo della segreteria di Giuseppe Bastianini, sottosegretario agli Affari esteri, ma di fatto, dopo il trasferimento di Galeazzo Ciano all’ambasciata presso la Santa Sede, il principale collaboratore di Mussolini a Palazzo Chigi. Quando il Gran Consiglio fu convocato per il pomeriggio del 24 luglio, Ortona sapeva che Bastianini avrebbe partecipato alla riunione e aderito all ’ or di ne del g i or no di Di no Grandi contro Mussolini. Per cercar di capire che cosa stava succedendo, andò a Palazzo Venezia verso le 23 e 30 e trovò un palazzo cupo, immerso nella penombra. Stava salendo le scale verso gli uffici, quando udì i passi frettolosi di una persona che scendeva di corsa. Era l’ufficiale di ordinanza di Enzo Galbiati, capo di stato maggiore della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale e fiero avversario di Dino Grandi. Quando Ortona gli chiese notizie sulla riunione, l’ufficiale, irritato e triste, gli rispose: «Si vogliono calare tutti le brache». Ortona capì che il regime stava morendo.
Sergio Romano