Robert Storr, Corriere della Sera 20/09/2010, 20 settembre 2010
ALL’INIZIO CI FU DALI’
Volare significa essere disincarnati. Significa sognare di muoversi senza restrizioni in uno spazio illimitato; avere accesso immediato e con tutti i sensi a tutto ciò che lo sguardo può abbracciare. È un peccato che Gaston Bachelard — pioniere delle contingenze delle forme nello spazio e mentore dei postmodernisti — non abbia approfondito questa condizione moderna, benché Antoine de Saint-Exupéry, autore-pilota quasi suo contemporaneo, abbia lasciato resoconti emozionanti dell’età pionieristica del volo, come l’«Odissea nello spazio» del Piccolo Principe.
Salvador Dalí, con le fantasmagorie antinewtoniane, preparò il terreno alle magie di Hollywood. Come ogni pittore dell’era moderna — benché fosse provocatoriamente anti-modernista — faceva apertamente uso di convenzioni teatrali e cinematografiche, e collaborò periodicamente con registi di entrambi i settori. Le sue prime incursioni furono le partecipazioni alla creazione di due classici dell’avanguardia dell’amico Luis Buñuel, Un chien andalou (1929) e L’Âge d’or (1930). Con il suo contributo alla sequenza del sogno in Io ti salverò - Spellbound (1945) di Hitchcock e la collaborazione con Walt Disney adattò la sua inclinazione per il bizzarro alla cultura di massa.
Un esempio di questa capacità di inserirsi in formati artistici più tradizionali è Le petit théâtre (1934), attualmente al Museum of Modern Art di New York. Per questo «rilievo rovesciato», Dalí dipinse un proscenio in miniatura, «teasers», e uno sfondo su pannelli trasparenti, che concentrano lo sguardo sui profondi ma radiosi recessi della messinscena pittorica. Dalla prospettiva rinascimentale italiana di Leon Battista Alberti al concettismo barocco di Ferdinando Galli Bibiena, maestro di architetture drammatiche, fino alla modernità, allestimenti di questo genere rispettavano la geometria euclidea adattandosi alla scatola teatrale; il costruttivista poi surrealista Frederick Kiesler fu il primo a curvare e rovesciare quella scatola come una striscia di Moebius. Pur essendo uno degli inventori del biomorfismo accanto a Joan Miró, a Dalí non venne mai in mente di manipolare il contenitore; tuttavia nell’ambito della matrice planare da lui accettata, si prendeva ampie libertà, contraendo ed espandendo continuamente lo spazio.
Una rassegna delle opere su tela del mago spagnolo rivela tracce di trucchi di scena. In due dipinti relativamente giovanili — Il senso del divenire (1930) e La vecchia
ia di Guglielmo Tell (1931) — un drappo rettangolare appeso per gli angoli appare come una tenda prima che venga tirata via, rivelando l’oggetto sensazionale.
Una tela, per lui, è il luogo in cui trasformare il concetto rinascimentale di pittura come finestra sul mondo esterno in quello di pittura come finestra sul mondo interiore. Grazie a questa inversione di prospettiva, immaginate di roteare le pupille di 180 gradi all’indietro, per poter vedere, sprofondati nei palchi della psiche, le creazioni della fantasia. Una progressione di visioni che spaziano dall’iperrealistico all’allucinogeno e all’orripilante.
Cominciamo da Figura a una finestra (1925). Non c’è nulla che dia un’idea di interiorità, se non una misteriosa sensazione che la ragazza non stia prestando attenzione a ciò che vede. L’immagine racchiude l’attrazione simultanea di Dalí per il Barocco spagnolo — senza il suo drammatico chiaroscuro — e per il «ritorno all’ordine» della Nuova Oggettività. Si tratta di un’opera conservatrice, per non dire reazionaria, in cui Dalí ha impiegato la sua prodigiosa abilità di integrazione tra sfondo e primo piano. E quando lo sguardo introspettivo della ragazza e lo sguardo speculativo dello spettatore convergono, i confini che limitano la realtà e separano l’interno dall’esterno si dissolvono.
Nelle opere successive, i risultati assumono forme diverse. In Le tre età (1940), tre teste femminili, che sono le fasi della vita, diventano una grottesca; gli occhi spalancati della giovane bellezza al centro occupano la loro giusta posizione, pur sembrando appesi a montagne al di là di un’arida valle, di fronte all’apertura cavernosa che delinea i contorni della testa. Il paesaggio, come in tutti i suoi dipinti, è quello, brullo e riarso, degli altipiani della Spagna, dove i miraggi sono più comuni degli esseri reali. Là, tra distese incolte dove le onde di calore fanno tremolare l’aria, Il
grande masturbatore (1929), sovraccarico di simboli freudiani, atterra con naso in avanti come un aereo da carico che ha appena toccato la pista nel deserto.
Nella tarda Apparizione del volto dell’Afrodite di Cnido in un paesaggio (1981), Venere è una maschera sospesa in aria su un paesaggio costellato di buche, stagni, o nubi. Conformemente alle convenzioni dell’antica scultura, le orbite degli occhi sono vuote e possiamo guardarvi dentro, mentre essa guarda fuori senza vedere, oppure guarda dentro ancora più in profondità — per lei, la visione è diventata unicamente una questione della mente. Ne I tre enigmi gloriosi di Gala (1982), una testa monolitica abbattuta come quella della grande Sfinge — icona della nemesi di Edipo, contro-immagine della teoria della castrazione, o anche ripresa dell’allegorico Ozymandias di Percy Bysshe Shelley — sembra sul punto di essere inghiottita dalla sabbia o di sgretolarsi. Un altro invito a incarnare condizioni immaginarie, un altro paesaggio della mente.
Tornando indietro cronologicamente, Coppia con le teste piene di nuvole (1937) offre la più radicale dissoluzione formale di corpo e mente, dove le cornici dorate sagomate sono le silhouettes della coppia, i cui busti e volti trasparenti si fondono per servire da lenti attraverso cui osservare il mondo fantastico di Dalí, come attraverso creature che esistono solo in quanto membrane ottiche. Infine, nel Volto della guerra (1940-41) gli occhi dietro le nostre teste — o meglio rivolti alla nostra nuca — colgono una raccapricciante visione di se stessi nell’immagine riflessa della loro stessa mortalità omicida, che moltiplica il loro orribile sguardo in una profusione grandguignolesca, una mise-en-abomination.
Dalí mostrò la via che portava dal Surrealismo allo spettacolo commerciale; è questa la rilevanza della collaborazione con Disney al cortometraggio Destino, del 1946. Solo le risorse tecniche e finanziarie dello studio Disney avrebbero potuto realizzare un’incursione così affascinante nella duttilità della forma e dello spazio, e solo il talento di Dalí per la pasticceria del subconscio avrebbe potuto fornire l’umorismo bizzarro che lo salva dall’essere semplice kitsch d’epoca, facendolo invece assurgere allo status di cult movie. Qui, in un’ambientazione e con una colonna sonora degne di un western d’annata come Duello al sole (pure del 1946), ricoreografato come un balletto da Hermes Pan sotto l’effetto dell’LSD, abbiamo l’intera gamma della Dalivision in technicolor, grazie a un’Euridice saltellante che ci conduce a fare il giro dei motivi preferiti del maestro. E se, in Dalivision, vedere significa dubitare, ci vuole un po’ per venire a patti con la gongolante spavalderia della prestidigitazione anamorfica.
Questo genere di «magia del cinema» ora è roba da perfette animazioni per il mercato di massa. All’immaginazione di Dalí è sempre mancato un ingrediente che Bachelard riteneva essenziale affinché una fantasticheria piaccia a tutti. Si tratta di quell’intimità che deriva dall’aver radici, e la cui specificità è l’imperfezione esistenziale trasmutabile, piuttosto che una perfezione passiva, incorporea. Nell’ambito figurativo del Surrealismo, René Magritte conservò tale caratteristica, e per quanto riguarda l’aspetto astratto lirico del movimento, in Miró essa è abbondantemente presente. Dopo il primo decennio, e anche lì, solo a tratti, questo «ingrediente» si trova nei dettagli dei dipinti daliniani, ma quasi mai in un’opera intera. L’intimità era estranea al «grande masturbatore» tanto quanto la sua controllata visionarietà era aliena alla gente «comune»; ed è questo il motivo per cui la «gente comune» ama la sua chiassosa eccentricità, mentre altri, che hanno accesso a mondi interiori di loro proprietà, più esigenti e forse più spaventosi, ma anche più affascinanti, ne restano sconcertati.
Robert Storr