NelloAjello, la Repubblica 21/9/2010, 21 settembre 2010
UGO GREGORETTI: QUANDO HO SOVVERTITO GLI SCENEGGIATI TV
Pagina 41 - Spettacoli
Ugo Gregoretti: quando ho sovvertito gli sceneggiati tv
"I miei ottant´anni da borghese curioso"
Il compleanno il 28 Regista, attore direttore di teatri autore, "malato di non protagonismo"
"Bacio la mano alle donne sposate, lo faccio anche con le femministe che non gradiscono"
NELLO AJELLO
E´ possibile invitare a confessarsi una persona che si dichiara «malata di non-protagonismo»? Avanti, tentiamo. La persona è Ugo Gregoretti, regista di cinema e di prosa, attore, direttore di teatri stabili, autore di trasmissioni televisive ironiche e sorridenti. Il 28 settembre Gregoretti compirà ottant´anni. Per una diecina di anni, i primi, è stato per me una presenza assidua, inseparabile, in quella Napoli del dopoguerra nella quale la sua famiglia, romana, s´era trasferita per un impegno di lavoro del padre, ingegnere e imprenditore.
Fra il ´45 e il ´55, Napoli dava l´impressione di vivere una stagione felice. Forse non era vero, forse era solo una nostra favola di adolescenti. Ma Ugo, nostro concittadino d´adozione, sembrava ben piantato in quel clima. Mostrava, come in un abbozzo, quei talenti che ne avrebbero segnato il destino artistico. Molto di ciò che vedevamo e ascoltavamo subiva il trattamento Gregoretti, diventando aereo, surreale e garbatamente comico. La buona borghesia della città si trasferiva in certi racconti a fumetti che egli disegnava. Intorno ai quindici anni, curava la regìa di spettacoli garbatamente provocatori, che i Padri gesuiti gli lasciavano allestire in qualche sala dell´istituto Pontano da noi due frequentato. Quando gli vedrò realizzare i suoi, dai "Nuovi angeli" (1961) a "Omicron" (1963), e le sue serie in tivù mi sembrerà di stare fra le quinte di quei teatrini.
Comincio perciò col chiedergli: Ugo, qual è stato il tuo film più "napoletano"? «L´iniezione più cospicua di napoletanità – ricorda Gregoretti - la feci nel "Circolo Pickwick". Sei puntate per la tivù, nel ´68, con attori spesso provenienti da altre professioni e comunque non consumati dal birignao televisivo. Stabilii, in maniera anche inconscia, una somiglianza fra la Napoli vivace e squinternata in cui avevo vissuto da ragazzo - con i suoi club nautici, i suoi nullafacenti, i notabili, i finti benestanti ampollosi e surreali - e quella «merry England» dickensiana degli anni Venti dell´Ottocento, che precedette l´industrializzazione e il moralismo della regina Vittoria. Esplosero contro di me polemiche infinite. Contraddicendo un sacro luogo comune. Avevo lacerato l´idea italiana del britannico flemmatico e irreprensibile».
Ma il pubblico, come reagì?
«Con molti contrasti. Venivano sovvertite le regole e i ritmi degli sceneggiati più consueti, dalla "Cittadella" al "Dottor Antonio". In televisione, iniziò un ostracismo nei miei riguardi. Sarei stato cautamente riabilitato cinque anni più tardi, quando proposi di realizzare un episodio d´una serie sui libri celebri. Era il 1973. Scelsi "La tigre della Malesia" di Emilio Salgari. Il romanzo era uscito alla fine dell´800, a puntate, su un quotidiano veneto. Andai a leggermi quel vecchio giornale. E mi venne l´idea di mescolare nella sceneggiatura notizie di costume desunte dalle pagine di cronaca con episodi del classico salgariano. Un effetto quasi metafisico».
Ancora un romanzo di cui hai curato la regia: . "Il Conte di Montecristo". Me lo ricordo bene.
«Era ormai il 1995. Sei puntate su Raitre. Nell´originale di Dumas padre le città al centro dell´azione erano Parigi e Marsiglia. Le italianizzai in Milano e Napoli. Il titolo fu mutato in "Il Conto Montecristo". Si alludeva a Tangentopoli. Affidai una parte importante a Federico Zeri: puoi capire. Sono convinto che sia la cosa meno peggio da me fatta in tivù. Invece subì un autentico boicottaggio. Incappò nella transizione al vertice di Raitre fra il centrosinistra e Berlusconi».
Ti è capitato di lavorare con grandi attori, da Tognazzi a Paolo Poli…
«Tognazzi. Era lui il protagonista di un mio cammeo (oggi si direbbe così) intitolato "Il pollo ruspante". Faceva parte di in un film del 1963, intitolato "Rogopag" dal nome di cinque registi, autori di altrettanti episodi. Tognazzi interpretava il papà di una famiglia piccolo-borghese: lui, moglie e due figli. Vi si racconta una giornata festiva nella quale la famiglia attraversa tutti i territori del consumismo, allora allo stato nascente, almeno in Italia. Era il paradigma di come si suscitano desideri superflui nel cittadino medio. Le peregrinazioni dei quattro in cerca di acquisti erano intervallate dalla concione di un anziano signore che, in una sala di conferenze, esponeva dei desideri dell´uomo contemporaneo e la loro dinamica. La sua voce era metallica, artificiale. Alla fine la famigliola subisce un incidente con la sua utilitaria. E mentre Tognazzi e i suoi vanno a sbattere si rivede il conferenziere. Gli ascoltatori gli si presentano uno ad uno per congratularsi, parodiando cognomi illustri: il conte Colpi di Marmellata, l´avvocato Capretti».
Tu e la politica. Da giovane t´interessava poco, poi è come se ti divertisse…
«Divertirmi? Sono stato per vari anni consigliere comunale a Roma. Non mi sono mai annoiato tanto».
Mi torna allora in mente un accenno, contenuto in un tuo libro di memorie del 2005, "Finale aperto". Vi si accennava alla tua iscrizione al Pci, nei primi anni Settanta. Uno sketch eroicomico, che mi è un po´ sfuggito di mente. Mi rinfreschi la memoria?
«Era venuto a trovarmi un giovane funzionario del partito, mi pare si chiamasse Marchesi. Insisteva con molta cortesia perché mi iscrivessi. Io cercavo di schermirmi. "Sono inguaribilmente borghese. Bacio la mano alle donne sposate, lo faccio anche con le femministe che non gradiscono. Sono fatuo, maniaco dell´eleganza, fissato per le cravatte. Come può entrare nel Pci uno che ha duecento cravatte?…"».
E come andò a finire?
«Lui ebbe un colpo di genio. "Il compagno francese Louis Aragon", mi ricordò, "di cravatte ne ha quattrocento. E un centinaio di foulards". Mi sembrò che pensasse: è fatta. Mi arresi. "Quand´è così, dammi ‘sta tessera"».