NADIA FUSINI, la Repubblica 21/9/2010, 21 settembre 2010
LA CIVILTA DEL LABIRINTO
Nel 1922, annus mirabilis della letteratura moderna, T. S. Eliot pubblicò una memorabile recensione dell´Ulisse di Joyce. Joyce, disse, ha creato non solo un romanzo unico al mondo, ha inventato un metodo, consegnando a noi scrittori e di riflesso ai nostri lettori, a tutti noi uomini moderni, la chiave per dominare il caos del presente. E come? Intrecciando il disordine della vita all´ordine del mito. Eliot capì, perché era proprio quel che faceva in poesia: anche lui per citazione letteraria, per allusione mitologica provava a dare forma e significato "all´immenso panorama di futilità e anarchia che è la storia contemporanea". E insegnò a chi lo intese, e furono in molti nella sua epoca, come leggere non solo l´Ulisse, non solo La terra desolata, ma il Novecento, che proprio con Joyce, proprio con Eliot si manifesta nella sua potenza di secolo, che impone a chi in esso vive il problema del Tempo. Che cos´è il Tempo? È Chronos? È Tyche? È taglio o cucitura? È sequenza ordinata o interruzione? La domanda ossessiona il Novecento appena esso si apre alla consapevolezza di sé, come fa con Eliot, con Joyce.
A questo servono gli scrittori, sono le antenne sensibili, vibratili che rispondono con più intensità alle angosce epocali. In pagine altrettanto mirabili, qualche anno prima, Nietzsche aveva riflettuto sul significato dell´essere contemporaneo: ovvero tempestivo? O intempestivo? In altre parole, per abitare nel proprio tempo, bisogna andare a tempo, come si fa nella danza, o controtempo? Ecco l´intoppo.
Eliot è americano, anche se si naturalizzerà cittadino britannico. Lo dico perché più di altre la civiltà americana sembra dominata dal problema del Tempo. E del Mito – come il successo del colossal Troy dimostra. E non sorprende che sia così, visto che essa nasce nella piena consapevolezza del passato, da cui s´è staccata nella presunzione di creare alla fine del diciassettesimo secolo dell´era comune, o cristiana, un mondo nuovo – moderno. Chi partì a bordo del Mayflower e nel dicembre del 1620 sbarcò a Cape Cod non andava per colonizzare, andava a fondare la Nuova Gerusalemme: quella, almeno, l´ambizione. I pellegrini avrebbero partorito un organismo sociale già sapiente, privo d´infanzia; il frutto nasceva maturo per l´esperienza che i suoi progenitori già avevano del Vecchio Mondo. Il quale però rimaneva sullo sfondo, e forniva immagini e simboli alla loro moderna odissea.
Ma prima ancora di Ulisse, che Joyce celebrava nel suo romanzo, l´uomo moderno che abita la terra desolata di Eliot convive con altri fantasmi, più arcaici. Non solo con l´astuto greco, ma con Minosse, sostiene Theodore Ziolkowski, professore emerito di Letterature Comparate a Princeton. È Minosse, e con lui la sua isola, Creta, ad ossessionare la mente e la letteratura moderna. Non a caso lo studioso intitola il suo libro, dedicato a tracciare la mappa della persistenza di immagini antiche, addirittura arcaiche, nella vita moderna, Minos and the Moderns. Basta pensare all´idealizzazione del Minotauro da parte di Picasso, di Dürrenmatt, di Masson, di Breton; alla presenza inquietante del Labirinto nel pensiero di Freud, di Nietzsche, di Marx. O alla figura di Europa a cavalcioni del toro in mezzo al mare in tanta pittura non solo barocca. Per non parlare della sfrontata Pasifae, col suo erotismo alla Bataille. O del romantico abbandono di Arianna, che Strauss metterà in musica, su libretto di Hofmannsthal. O del torbido amore della sorella di Arianna, Fedra, che dopo Euripide e Seneca, ispirerà Racine. E Yourcenar.
Creta risorge nella sua potenza di simbolo nel Novecento grazie a un singolare signorotto inglese, Sir Arthur Evans, che agli scavi si dedica con la tenacia di chi vuole scoprire le pudenda della civiltà vittoriana in cui è cresciuto, che in ogni modo ha voluto rimuovere la potenza della sessualità, che ha celebrato solo e soltanto nel suo aspetto procreativo; mentre a Creta la donna è madre sì, ma copula con un toro e genera un mostro, il quale a sua volta rappresenta la sfida, la minaccia, che il moderno ateniese Teseo deve vincere, instaurando il paradigma della modernità uguale vittoria sull´arcaico.
Per trent´ anni – racconta Cathy Gere nel suo affascinante Knossos & the Prophets of Modernism – Evans scavò nel palazzo di Cnosso riportando alla luce una civiltà che accese la fantasia di scrittori e artisti, da Joyce a De Chirico a Robert Graves a Hilda Doolittle. Non tutte le ipotesi di Evans corrispondevano alla realtà dei fatti; in effetti, l´intraprendente studioso – che per comodità si comprò il sito archeologico – ci metteva del suo. E scavò non solo nei sassi di Creta, ma nella propria interiore coscienza, nel proprio personale, o addirittura collettivo inconscio. Fatto sta che anche lui (come un altro signore svizzero di Basilea, Johann Jakob Bachofen, nato cinquant´ anni prima di lui, ma sempre nell´Ottocento) lasciò intravvedere un altro mondo – materno; e prese a favoleggiare di arcaici matriarcati, di una libido materna attiva nelle mura di Creta, di una civiltà della madre promiscua, pacifica.
Insomma, a Creta si scopriva non solo un luogo fisico, ma un tempo anteriore alla Storia. E se la Storia ha sempre un che di paterno, virile – non a caso la storia è un incubo per Stephen Dedalus, che già nel nome stringe la sua moderna nevrosi al mito cretese – il "prima" rivelava un mondo pacifista, materno. Evans parlò di un´origine africana della civiltà occidentale, si entusiasmò per il matriarcato, per l´androginia, il pacifismo, descrisse un mondo fiabesco, un paradiso di divinità femminili, privo di soldati, ma ricco di preti travestiti, di femmine atletiche, di giovani uomini effeminati, una specie di infanzia dell´Europa. Con giovani uomini e donne cretesi che erano già un´anticipazione dei figli dei fiori degli anni sessanta del ventesimo secolo.
Un idillio europeo – un inizio di sogno per un´Europa che sarà tra poco travolta da conflitti mondiali asprissimi, traumatici.