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 2010  settembre 21 Martedì calendario

L´ASIA LANCIA LA GUERRA DELLE MONETE PARTE LA SFIDA ECONOMICA ALL´OCCIDENTE - NEW YORK

Le accuse del segretario al Tesoro americano alla Cina sono pesanti. «Mantiene la sua moneta sostanzialmente sottovalutata e dà un vantaggio sleale alle sue esportazioni; tollera il furto di tecnologie straniere; crea barriere ingiustificate contro i prodotti americani». In altri tempi una requisitoria così dura avrebbe messo in allarme la Cina e il mondo intero. Stavolta invece, da Pechino alle parole di Tim Geithner non si è degnato di rispondere neppure un sottosegretario. Il governo cinese ha affidato la replica a una funzionaria, la portavoce del ministero degli Esteri Jiang Yu: «Un eventuale rafforzamento della nostra moneta, il renminbi, comunque non risolverebbe i problemi dell´America, né il suo deficit né la sua disoccupazione». A Washington Christopher Dodd, uno dei più influenti senatori democratici, commenta sconsolato: «Ormai la Cina fa quello che vuole». E non solo la Cina. Mercoledì scorso sui mercati mondiali è andata in scena un´inedita manovra a tenaglia contro le monete dell´Occidente. Sia la Cina che il Giappone sono intervenuti pesantemente a vendere renminbi (o yuan) e yen, per svalutare e quindi aiutare le proprie esportazioni. L´impatto degli interventi delle due banche centrali cinese e giapponese si è sentito su euro e dollaro, spinti al rialzo. E´ ormai l´Asia intera che si muove per conto suo. Se non contro di noi, certo senza di noi. "Asia Alone", l´Asia da sola, è il provocatorio saggio che mette in allarme l´America. Lo ha scritto Simon Tay, presidente del Singapore Institute of International Affairs. Tay è un esperto che per la sua formazione è piuttosto "filo-americano". Ma dall´osservatorio privilegiato di Singapore avverte i segnali di una dinamica nuova. «Si accelerano le tendenze - dice Tay - che portano l´Asia intera ad andare per la sua strada, a prescindere dagli Stati Uniti».
Quello che è accaduto la settimana scorsa, quando Pechino e Tokyo hanno spinto in modo simultaneo al ribasso le loro valute, sfidando apertamente l´ira di Washington, sarebbe stato impensabile fino a pochi anni fa. Per un singolare coincidenza, ricorre il 25esimo anniversario del celebre accordo del Plaza: una pietra miliare nella storia delle monete, un evento simbolico dell´egemonia americana al suo apice. Nel settembre del 1985 all´hotel Plaza di New York l´Amministrazione Reagan dominava a tal punto il club dei Grandi - allora era il G5 - che riuscì a costringere il Giappone ad una poderosa rivalutazione dello yen. I risultati del diktat a Tokyo furono benefici per gli Stati Uniti. Grazie al dollaro debole gli americani rilanciarono la propria crescita e riuscirono a ridurre il loro deficit pubblico. Il Giappone a quei tempi era l´unica potenza economica asiatica e non aveva altra scelta se non quella di piegarsi e collaborare. Oggi il peso dell´Asia è ben diverso. «La Cina è insensibile alle pressioni esterne - dice Jeffrey Frieden dell´università di Harvard - se un giorno deciderà di rivalutare la sua moneta lo farà solo perché le conviene, non certo per una concessione all´Occidente, neppure in nome della cooperazione».
Per capire quanto l´Asia possa ormai fare da sola, sganciandosi dai destini dell´Occidente, il Wall Street Journal rispolvera un testo sacro dell´economia monetarista. E´ lo studio di Milton Friedman "A Monetary History of the United States", indispensabile per capire la Grande Depressione, e non solo quella. Dal 1921 al 1929, quando lo strumento di pagamento mondiale era l´oro, l´America nella sua ascesa economica aumentò del 50% le sue riserve aurifere. Oggi il ruolo dell´oro è svolto dal dollaro, e il Wall Street Journal conclude: «La Cina è come l´America degli anni Venti, dunque fa parte della sua ascesa l´accumulazione di crescenti riserve di dollari. E tutta l´Asia segue il modello cinese». In effetti non è solo a Pechino che si costituiscono colossali riserve monetarie ma anche a Tokyo, Seul, Taipei. Nel 1997 le fluttuazioni selvagge dei cambi furono lo strumento di contagio dell´ultima crisi asiatica verso il resto del mondo. Oggi l´Asia ha imparato la lezione e l´applica a rovescio: accumulando attivi commerciali e riserve valutarie vuole isolarsi dal contagio delle debolezze occidentali.
Alla guerra delle valute se ne affianca un´altra, parallela. E´ la guerra delle tecnologie. Nella sua triplice accusa alla Cina, il segretario al Tesoro Geithner è quasi reticente quando dice che la Repubblica Popolare "tollera il furto di tecnologie straniere". Ormai si è aperta un´altra fase: il governo cinese quel furto lo organizza, attraverso un esproprio di Stato. E´ significativo quel che sta accadendo nell´industria dell´automobile. Le autorità di Pechino stanno per varare una nuova normativa che imporrà alle case automobilistiche straniere di divulgare le loro tecnologie "verdi" - motori elettrici e ibridi - se vogliono mantenere l´accesso al mercato cinese. La nuova legislazione fa parte di un piano decennale preparato dal ministero dell´Industria cinese per "conquistare la leadership mondiale" nella nuova generazione di auto a zero emissioni. Il governo potrà costringere qualsiasi produttore estero ad avere un socio locale col 51% del capitale, in modo da rendere l´industria nazionale partecipe di tutte le innovazioni tecnologiche elaborate all´estero. Dal punto di vista ambientale la notizia è positiva, conferma l´impegno della Cina per lo sviluppo della Green Economy: Pechino ha già investito 1,5 miliardi di dollari in questo settore negli ultimi cinque anni. Ma il ricatto alle case automobilistiche straniere indica anche che la Repubblica Popolare vuole emanciparsi da qualsiasi forma di dipendenza dall´Occidente. Ha gli strumenti di pressione adatti: entro il 2020 il mercato cinese delle auto raggiungerà i 40 milioni di immatricolazioni all´anno, cioè il doppio dei livelli che raggiunse l´America pre-crisi (oggi le vendite negli Usa sono scese a 12 milioni annui). Chi non si piega al diktat di cedere le sue innovazioni tecnologiche ai soci cinesi, sarà tagliato fuori dal più vasto mercato mondiale. Questo tipo di guerra tecnologica non si limita al settore dell´auto. Lamentele analoghe sul comportamento di Pechino si sono sentite in altri settori, da parte di multinazionali americane come General Electric ma anche tedesche come Siemens e Basf. La classe dirigente cinese non si accontenta più del ruolo di "fabbrica del pianeta", progetta la trasformazione della Repubblica Popolare in un´economia hi-tech. E per strappare all´America la leadership nell´innovazione tutti i colpi sono permessi.
Vista dall´Estremo Oriente la prospettiva di "Asia Alone" è ben diversa. Il Quotidiano del Popolo, organo ufficiale del partito comunista cinese, in un editoriale annuncia "un età dell´oro per lo sviluppo asiatico". Per un occidentale questa può sembrare propaganda. Nel resto dell´Asia è semplicemente un dato di fatto. Nel secondo trimestre di quest´anno la crescita della Cina (+10,3% del Pil), ha trascinato dietro di sé India (8,8), Indonesia (6,2), Malesia (8,9), Singapore (18,8), Corea del Sud (7,2), Taiwan (12,5). Perfino la Thailandia malgrado le turbolenze politico-militari è cresciuta del 9,1. E il Giappone, unica area "depressa" che sembra avere problemi analoghi all´Occidente, con una crescita del 2,4% va molto meglio dell´Eurozona: l´unica ragione è la sua vicinanza e integrazione con l´economia cinese.
Lo scenario di un´Asia che "fa da sé", si estende in campi diversi da quello economico-monetario. Quando il premio Nobel dell´Economia Amartya Sen ha lanciato il progetto di una università pan-asiatica nella sua India (a Nalanda, nello Stato del Bihar) non immaginava il successo di quell´iniziativa: dalla Cina al Giappone, passando per Singapore, ben 16 governi asiatici hanno deciso di finanziare quel progetto. Che non a caso avrà sede nello stesso luogo dove diecimila studenti da tutto l´Oriente andavano a formarsi cinque secoli prima che nascesse l´università di Oxford in Inghilterra.
Per gli americani è difficile rassegnarsi a un futuro asio-centrico. Eppure quel futuro è ormai visibile anche nel loro "cortile di casa". La settimana scorsa la compagnia petrolifera brasiliana Petrobras ha dovuto aumentare fino a 78 miliardi di dollari la sua offerta di azioni sul mercato. E´ il più grande collocamento in Borsa del mondo. La ragione di tanto successo: l´interesse dei fondi sovrani asiatici per le risorse energetiche del Brasile. Quest´anno la Cina è già diventata il più grosso investitore estero nell´economia brasiliana. Quel subcontinente latinoamericano che un tempo era saldamente nella sfera d´influenza degli Stati Uniti, ha già capito da che parte tira il vento. La crisi del 2008-2009, poiché ha arrestato l´Occidente mentre l´Asia ne usciva immune, ha dato un colpo d´acceleratore ai processi che erano già in atto. E´ quello che Simon Tay da Singapore definisce "the Post-Crisis Divide", una faglia che si è allargata rapidamente dopo la crisi.