FRANCO LA CECLA, la Repubblica 21/9/2010, 21 settembre 2010
LE CITTÀ DEL MONDO CON STRADE TUTTE UGUALI
Modena, Mantova, Vittorio Veneto, ma anche Saint Emilion, o Koln, Granada o Stoccolma o Utrecht, ma anche Milano, Bordeaux o Lisbona, la sera dopo l´ora di chiusura, lungo l´asse – pedonale o no – che nel centro storico antico o rifatto ospita le boutique e le catene, H&M, Benetton, Zara, Sephora.
Una solitudine desolata, vetrine che la cantano solo a se stesse avendo perso il riflesso imbarazzato dei consumatori giornalieri. Il destino di questi centri sembra dappertutto lo stesso. Una apparente vitalità, che dura fin quando dura l´auspicato leccar vetrine, ma poi a sera - altro che sabato del villaggio - un abbandono al guardiano notturno e ai suoi fogliettini, qualche ubriaco, qualche depresso a passeggio. Perché ha vinto questo modello che è il contrario dell´abitare un luogo? Per abitare non bisogna solo transitare, fruire, passare, bisogna stare. Cosa ha fatto sì che il modello piccolo borghese dei saldi pomeridiani e della tv serale abbia schiacciato sotto il suo peso la bellezza magnifica dell´annottar per strada? Oggi le main streets boutiquizzate d´Europa offrono lo squallido spettacolo di città fantasma, di città morte, come se la vita di una città dipendesse davvero dalla presenza delle luci false e dei manichini muti, delle commesse impupate e sottopagate, delle telecamere onnipresenti. Sembra che proprio quegli assi pedonali pensati per sconfiggere le automobili diventino autostrade di cittadini da controllare con videoguardiani e da spolpare. La vita di strada, questa magnifica costellazione che ha creato l´urbanità, valore inventato in Italia ed in Europa, invidiato da tutto il mondo è fatta di bar, caffè, terrazze, bistrò, di locali di ritrovo, ma anche altre attività, cinema, teatri, barbieri, fiorai, lavanderie, librerie, negozi di vecchie cose, gradini, sedili, panchine, spazi antistanti chiese e palazzi, crocicchi di gente e ciacolii. É come se le città, ridotte a teatro di ombre private avessero dimenticato la libertà che crea quella democrazia che è stare tra conosciuti e sconosciuti nello spazio pubblico. Hanno dimenticato ad esempio la bellezza dei mercati. A Junagadh, in India, una cittadina povera e magnifica del Gujarat, per i vicoli la sera ci si sente molto più ricchi che a Parma e a Modena, perché non c´è niente di più incredibile che passare per il vicolo degli orefici, per quello dei venditori di farina, per quello delle spezie, dei tessuti, della frutta e dei fiori, un mercato di voci, sguardi, gente a contrattare e a osservare, perdigiorno. Perché abbiamo tradito la vocazione delle nostre città, che erano nate in questo senso, dei centri che una volta erano davvero luoghi di vita? C´è un terribile errore di fondo, quel credere che il consumismo sia l´unica attività pubblica concessa. Senza togliere nulla al consumismo che puo essere divertente la vita dei cittadini è qualcosa di molto più ricco e interessante, non solo l´illusione di vetrine che da sole non creano socialità. Non erano così nemmeno i passages parigini, che pullulavano di vita a qualunque ora, per quanto siano stati gli antesignani dei nostri luoghi di vetrine. Lì si vedevano poeti, scrittori, puttane, agenti di commercio e flaneurs, ma era l´idea di città che vi stava intorno a dare al tutto un senso. Oggi nemmeno gli urbanisti, per non parlare degli architetti, sanno in cosa consista una città. Glielo cantava già Shakespeare: «che cosa sono le città se non gente».