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 2010  settembre 20 Lunedì calendario

L’EFFETTO MARCHIONNE SI PROPAGA, L’AUTO È STATO SOLO IL PRIMO PASSO


I metalmeccanici non adotteranno né il "modello chimici", né il "modello tedesco". Applicheranno le regole di Marchionne, che sono un’altra cosa.
Gli anni Novanta sono stati quelli della grande ubriacatura sulla flessibilità, questa, invece, è la stagione delle deroghe. "Flessibilità" fu la parola chiave, per unire ma anche qualche volta drammaticamente per dividere. Ora ha passato il testimone a "deroghe". Così si dice chi vuole cambiare, deroga; gli altri resistono. Più o meno. Eppure Sergio Marchionne, amministratore delegato della Fiat, non vuole le deroghe, vuole governare gli stabilimenti, secondo standard di produttività globali senza quelli che considera i bizantinismi del "modello italiano" di relazioni industriali. Lo ha detto netto al termine dell’assemblea della Fiat che, la scorsa settimana, ha dato il via libera allo spinoff. «La vicenda di Pomigliano ha scandito è chiusa». Non si torna indietro tanto che ha chiesto di «allinearsi», senza se e senza ma, ai duri della FiomCgil di Maurizio Landini. Dunque il negoziato tra la Federmeccanica e i sindacati (tutti tranne appunto la Fiom) che hanno firmato l’intesa per la riorganizzazione del lavoro al Giambattista Vico di Pomigliano d’Arco, con meno pause, più ritmi, più straordinari, meno scioperi e meno assenteismo, serve a modificare strutturalmente le regole del gioco. Nulla di temporaneo, nulla di sperimentale come, invece, prevedono sia i chimici sia i tedeschi. Si capisce così che la vera posta in palio nella trattativa cominciata la scorsa settimana non sono le deroghe ma l’applicazione del contratto nazionale e la permanenza stessa della Fiat dentro la Confindustria, perché la minaccia del Lingotto di uscire dalla Confederazione di Viale dell’Astronomia è stata messa in freezer ma potrebbe non restare lì. Tanto è vero che è nata la newco Pomigliano Fabbrica Italia, che riassumerà con il nuovo contratto i circa cinquemila che già lavorano in quello stabilimento.
Il Lingotto sta guardando alla trattativa tra Federmeccanica e sindacati con distacco, quasi da osservatore. Non può essere senza significato, infatti, che il capo delle relazioni industriali di Torino, Paolo Rabaudengo, non abbia nemmeno partecipato al primo incontro di mercoledì scorso a Roma. Unico assente nella foltissima delegazione degli industriali metalmeccanici. Si può davvero dire che il "modello metalmeccanici" ispirato da Marchionne fa ancora leva sui rapporti di forza, per quanto catapultati nella sfida planetaria. E che dunque, oggi, in questa lunga fase postrecessione, vince l’impresa, ma domani non è detto.
D’altra parte né i chimici né i tedeschi hanno costruito i propri modelli sulle premesse di Marchionne. Le loro deroghe, i chimici le hanno introdotte nel contratto firmato unitariamente nel 2006, anticipando la riforma del modello contrattuale, e l’anno successivo hanno sottoscritto le "Linee guida" per gli accordi aziendali in deroga al contratto nazionale. Prima importante differenza con il "modello metalmeccanici" è che le deroghe riguardano le aziende, non un territorio, un gruppo o addirittura, come si profila, un intero comparto produttivo come l’auto. Con questa impostazione tra i metalmeccanici le deroghe come sostiene Tiziano Treu, giuslavorista, già ministro del Lavoro nei governi di centro sinistra «diventeranno la norma anziché l’eccezione». Perché una volta usciti, come nel caso di Pomigliano, dalle regole del contratto non è previsto alcun rientro.
Le procedure per l’accesso alla deroga, nel "modello chimici", sono dettagliatamente disciplinate e ad ogni passaggio prevedono l’unanimità, escludendo così le divisioni tra i sindacati. Ci sono poi due materie inderogabili: i minimi contrattuali e i diritti individuali irrinunciabili.
Ma qualche azienda chimica in questi tre anni ha chiesto di potere usufruire delle deroghe per fronteggiare un momento di crisi? No, nessuna. E questa è una vera sorpresa perché il modello è rimasto sulla carta, inapplicato. In sostanza le flessibilità d’orario previste dal contratto hanno largamente preso il posto delle eventuali deroghe. Qualsiasi imprenditore chimico fa fatica a non riconoscere di aver in mano più di uno strumento contrattuale per fronteggiare le crisi o le impennate della domanda, facendo scambi con i sindacati. «Peccato dice Alberto Morselli, segretario generale della FilctemCgil perché sarebbe stato importante potersi misurare con una richiesta del genere, mettendo alla prova un modello che abbiamo costruito all’unanimità».

Non si può dire che il "modello metalmeccanici" abbia lo stesso spirito. Piuttosto si esaltano le divisioni creando le premesse di un sindacato aziendalista "modello americano" che in Italia ha un interprete importante proprio nel gruppo Fiat con la Fismic di Roberto Di Maulo, convinto che Pomigliano «stia portando in quella direzione». Un po’ Marchionne l’ha anche detto e non solo perché oggi ha ancora bisogno dell’appoggio del sindacatoazionista dei lavoratori dell’auto per rilanciare la Chrysler. E un po’ Di Maulo ha rafforzato le relazioni con l’Uaw, lo United Auto Workers che possiede il 55 per cento dell’azienda di Detroit. Movimenti facilmente interpretabili.
Chimici lontani e lontano è pure il "modello tedesco". Qui le distanze diventano abissali pur tralasciando tutta la parte riguardante la cosiddetta partecipazione. Fermiamoci ai contratti e ai metalmeccanici. In Germania circa il 40 per cento delle aziende metalmeccaniche non applica il contratto nazionale. Ha il contratto aziendale oppure i contratti individuali. Non ci sono vincoli. Si può anche aderire all’organizzazione delle imprese senza applicare il contratto nazionale. «Noi per esempio spiega Pietro De Biasi, responsabile delle relazioni industriali del Gruppo Riva (Ilva) che in Germania ha due impianti abbiamo il nostro contratto». Sono i grandi gruppi a ispirare il contratto nazionale, gli altri se vogliono, o possono, si adeguano. Ci sono le deroghe, ma con un fondamento che da noi non c’è, secondo De Biasi: «Nelle aziende, in particolare in quelle piccole e medie, a negoziare è il Consiglio di fabbrica eletto ogni quattro anni su liste non appartenenti al sindacato. Per questo quando si definiscono eventualmente alcune deroghe viene chiesta una sorta di approvazione da parte del sindacato, l’Ig Metall. Ecco perché in Italia aggiunge De Biasi non ha alcun senso parlare di deroghe. In Italia i soggetti che trattano sono sempre gli stessi che, dunque, possono cambiare i contratti come e quando vogliono. Che c’entrano le deroghe?».
Va da sé che non è solo una questione nominalistica. D’altra parte le deroghe (l’opting out dal contratto) erano state previste pure dalla "Commissione Giugni" che nel 1997 presentò le sue proposte per riformare il modello contrattuale del ‘93. Ma non se ne fece nulla. Oggi la discussione intorno alle deroghe dimostra che, in ogni caso, il nuovo modello contrattuale sottoscritto all’inizio del 2009 senza la Cgil, non ha superato la prova dei metalmeccanici. E c’è chi ritorna a pensare a un contratto unico, leggero, per l’industria con le varie applicazioni per filiere, dall’auto alla chimica, dall’informatica alle telecomunicazioni. «Sarebbe questa proprio l’occasione da sfruttare per rilanciare il contratto dell’industria», sostiene, per esempio, Bruno Vitali, segretario nazionale della FimCisl. Ma Marchionne ha imposto tempi rapidi: c’è al massimo ancora un mese per chiudere questa partita. Poi si dovrà vedere se il "modello metalmeccanici", ribaltando la tradizione, troverà lui, questa volta, qualche imitatore.