Artura Zampaglione, Affari & Finanza 20/9/2010, 20 settembre 2010
2010, FUGA DA WALL STREET. I FONDI AZIONARI NON TIRANO PIU’
«Gli investitori sono in sciopero», si lamenta Axel Merk, un gestore di fondi che ha pubblicato in America un libro di successo sulle strategie finanziarie in tempi di crisi (Sustainable wealth). Come dargli torto? A due anni dal crac della Lehman Brothers, che spinse il capitalismo globale sull’orlo del baratro, Wall Street batte ancora la fiacca. Mercoledì scorso, mentre tori e orsi si affrontavano in accesi dibattiti sulla rete di notizie economiche Cnbc senza apparire convincenti né gli uni né gli altri l’indice Dow Jones chiudeva a 10.594 punti.La fatidica quota 10mila è stata raggiunta per la prima volta dalla borsa newyorkese nel marzo 1999, cioè più di undici anni fa. I giornali americani continuano a descrivere la delusione e la sfiducia dei risparmiatori per il mercato azionario. "Ormai nel mio portafoglio ho il 42 per cento di contanti e solo il 21 per cento di azioni", riferisce a Usa Today Stacy Harris, una musicologa di Nashville, nel Tennessee, che è vicina alla pensione ma si rifiuta di mettere soldi in Borsa come aveva fatto finora.
La prova migliore dello "sciopero degli investimenti" di cui parla Merk viene dai fondi comuni. Dopo decenni di crescita, il settore è in crisi: negli ultimi dodici mesi, secondo la Morningstar, una società di analisi finanziarie, sono scomparsi 414 mutual funds, come vengono chiamati negli Stati Uniti. E dal maggio di quest’anno, secondo l’Ici (Investment company institute), l’organismo di categoria dei fondi comuni, si sono visti riscatti per 51 miliardi di dollari dai fondi azionari, mentre c’è stato un afflusso nei fondi obbligazionari americani per un totale di 94 miliardi di dollari. Le cifre complessive dall’inizio del 2008 sono di 245 miliardi di dollari usciti dai fondi azionari e 616 entrati in quelli obbligazionari.
Dietro a questi dati ci sono ovviamente i contraccolpi psicologici ed economici della tempesta finanziaria. Ma lo "sciopero degli investimenti" non è legato unicamente all’esplosione delle bolle dei mutui subprime e dei prodotti derivati. In realtà le cause immediate si intrecciano con alcuni trend di più lungo periodo tra gli investitori d’oltreoceano, che occorre tenere ben presente perché potrebbero influenzare le dinamiche finanziarie a livello globale nel medio periodo. Sembra quasi una inversione di tendenza: gli americani sono più prudenti, non si affidano più ciecamente al mercato azionario, come hanno fatto per decenni (dando lezioni a tutto il mondo), e tendono invece a diversificare il loro portafoglio con una crescente presenza di obbligazioni e titoli di stato.
"La prima ondata del babyboom è già in pensione e un’altra fetta di quella generazione sta per andarci ben presto", ricorda Brian Reid, responsabile del dipartimento economico dell’Ici. "E siccome gli investitori più anziani hanno meno tolleranza per i rischi finanziari, si assiste a uno spostamento degli investimenti sul reddito fisso". Secondo Reid, non si potrebbe spiegare altrimenti se non con questi fattori demografici la crescita dei fondi obbligazionari che è cominciata nel 2004, cioè ben prima della tempesta, e che naturalmente si è accelerata negli ultimi tempi.
La fuga degli investitori ha fatto centinaia di vittime tra i fondi: alcuni sono stati costretti a fondersi perché non avevano più le dimensioni minime per operare, altri sono stati addirittura liquidati. Ad esempio Frontier Microcap è stata costretta a chiudere i battenti dopo aver dilapidato in pochi anni un capitale di 1,6 milioni di dollari. Certo, a soccombere sono stati i gruppi che non avevano capito le tendenze del mercato e che hanno quindi fatto scelte sbagliate. Ma il clima resta pesante per tutti i protagonisti del settore, che non si stancano di riflettere sui cambiamenti in corso e sulle cause della disaffezione degli investitori.
Tutti sembrano d’accordo su un punto: l’ultimo tracollo del Dow Jones (passato dal record di 14.006 punti dell’ottobre 2007 ai 6.626 del marzo 2009) non va visto a se stante. In realtà per il risparmiatore americano si è trattato della seconda batosta in un decennio: all’inizio del 2000, quando si ruppe la bolla della new economy, l’indice Standard & Poor’s 500, che è persino più rappresentativo del Dow Jones perché si basa su 500 titoli invece di 30, calò in due anni del 49 per cento, trainato dai titoli tecnologici. E dalla fine del 2007 in poi il valore complessivo delle società quotate in Borsa si è ridotto di 5600 miliardi di dollari.
La duplice delusione d’inizio millennio ha smorzato gli entusiasmi degli americani, rafforzato le cautele e alimentato le diffidenze anzi l’animosità nei confronti della "gente di Wall Street", accusata di ricorrere a trucchi disonesti (come quelli della Goldman Sachs) e di cadere sempre in piedi. In teoria la riforma del sistema finanziario, voluta da Barack Obama e dal suo ministro del tesoro Tim Geithner, e approvata dal Congresso durante l’estate, dovrebbe rispondere a queste inquietudini: in particolare la creazione dell’agenzia per la tutela del consumatore di prodotti finanziari, sulla quale veglierà Elizabeth Warren, dovrebbe creare un nuovo habitat per i risparmiatori.
Ci vorrà comunque del tempo, e soprattutto una normalizzazione della situazione economica e occupazionale, perché il pendolo degli investimenti possa tornare dalla parte di quegli azionari, che per definizione sono più rischiosi.
Prima della crisi si sentiva spesso, a un cocktail o a una cena, qualcuno che si vantava dei propri successi in Borsa o offriva qualche dritta su un titolo. Adesso non accade più.
Secondo un sondaggio del Scotttrade american investor, il 65 per cento degli americani è ancora "stressato" dalla situazione finanziaria. Un terzo degli interpellati confessa di "investire di meno" e "in modo più tradizionale". Tra i più cauti figurano i più giovani, cioè gli under 45. E qualche economista ipotizza anche parlando di "lost generation", cioè di una generazione di investitori perduta che l’attuale stallo di Wall Street possa durare molto più a lungo del previsto, come accadde non solo dopo la depressione degli anni trenta, ma anche dopo la burrasca di inflazionerecessione degli anni settanta.
Le statistiche americane sui mutual funds comprendono anche i dati sui fondi di money market, cioè quelli che gestiscono la liquidità a breve termine. Anche se non possono essere considerati un barometro della propensione all’investimento, sono sicuramente tra i più colpiti dal nuovo clima finanziario.
Dal gennaio al luglio di quest’anno 515 miliardi di dollari sono fuoriusciti dal money market. Gli assets dei fondi di settori sono passati da 3900 miliardi di dollari dell’inizio del 2009 a 2800 miliardi. La ragione? La politica di tassi di interesse vicini allo zero, varata dalla Federal Reserve di Ben Bernanke nel dicembre 2008 per scongiurare una recessione ancora più grave, ha portato a uno spostamento di capitali dai fondi verso strumenti bancari. Era inevitabile: secondo la Crane Data, fino a qualche settimana fa i tassi nei più grandi fondi di money market si aggiravano sullo 0,10 per cento, rispetto allo 0,89 dei depositi bancari vincolati per sei mesi. (Poco prima della mossa della Fed i tassi sul money market erano di circa l’1,5 per cento.) Il tradimento del money market interessa soprattutto gli investitori istituzionali, che a fine anno avranno sottratto secondo le proiezioni degli esperti circa 500 miliardi di dollari dai fondi. Sarà difficile che il trend cambi direzione prima del 2011 o addirittura dell’inizio del 2012, e comunque sarà legato a una stretta da parte della Fed di cui ancora non si parla: semmai Bernanke preferisce sottolineare gli strumenti a sua disposizione per evitare un doubledip, cioè una seconda recessione a ridosso di quella iniziata nel dicembre 2007.
Gli americani si sono sempre vantati di avere un azionariato molto diffuso: nel 2002 il 49,5 per cento delle famiglie al di là dell’Atlantico possedeva delle azioni, o direttamente o attraverso fondi pensione. E 28,7 milioni di famiglie hanno ancora dei fondi di investimento azionario. Ma è proprio questo modello a mostrare delle incrinature profonde. "E ho paura che si tratti di un fenomeno generazionale", osserva Michael Panzner, responsabile di Financial Armageddon, un blog molto seguito.