Massimo Mucchetti, Corriere Economia 20/9/2010, 20 settembre 2010
BANCHE, IL DELITTO PERFETTO DI BASILEA 3
Il giudizio più secco e più vero sui nuovi requisiti patrimoniali di Basilea 3, che verranno proposti al G20 di novembre dal Comitato dei banchieri centrali abituato a riunirsi nella città svizzera, l’ha dato Martin Wolf sul FinancialTimes: «La montagna ha partorito il topolino». Non è stato un errore, aggiungiamo noi, ma un delitto perfetto.
Erano partiti due anni fa proclamando che gli Stati non avrebbero più dovuto trovarsi costretti a salvare le banche con i denari dei contribuenti e che, dunque, nessun istituto avrebbe dovuto essere troppo grande per fallire. Sono arrivati, grazie all’influenza delle banche, specialmente di quelle anglosassoni, a far passare il concetto che la regolazione del rischio rappresenta un costo per la società, tanto più alto quanto più la regolazione sia ferrea.
La Grande Crisi avrebbe dovuto insegnare a tutti che ridurre ai minimi termini la finanziarizzazione del credito rappresenta un costo solo per le banche, in particolare per i soci e i top manager, mentre dà garanzia di stabilità alla società, che ancora sta pagando i danni della tecnofinanza. Ma il salto di paradigma non c’è stato.
Chi ha vinto
La vittoria dei conservatori era nell’aria. A giugno già serpeggiava un malsano ottimismo. Le ulteriori svalutazioni nei portafogli delle banche delle tre grandi aree monetarie, dollaro, euro e yen, secondo il Fondo monetario internazionale, non avrebbero superato i 550 miliardi di dollari. Gli utili accantonabili, secondo il consensus degli analisti raccolto da Bloomberg, toccavano i 450 miliardi. Insomma, ci sarebbe stato bisogno di non più di 100 miliardi per recuperare i livelli patrimoniali di fine 2009. Una bella somma, ma non enorme come si prevedeva nel 2009. Sempre a giugno, Mediobanca Securities prevedeva che il requisito minimo di capitale (il Core Tier 1, ora ribattezzato) sarebbe stato dell’ 8% degli attivi ponderati per il rischio, con un giro di vite sulla qualità del capitale e degli attivi.
Sulla ventina di grandi banche del campione europeo, il fabbisogno di capitale sarebbe stato di un centinaio di miliardi di euro, ma in due anni gli utili accantonabili avrebbero raggiunto i 170 miliardi. Niente paura. L’urgenza di una ricapitalizzazione, per circa 20 miliardi al netto delle nuove riserve, avrebbe riguardato le sole banche italiane, francesi e spagnole. Ma alla prova dei fatti, come osserva Cheuvreaux, casa d’analisi del Credit Agricole, non ci vorrà nulla.
Il requisito minimo di capitale è stato fissato al 7% e la rimodulazione della rischiosità degli attivi appare assai meno stringente di quanto sarebbe stato necessario per tagliare alla radice i rischi sistemici. E, soprattutto, c’è tempo fino al 2019 per mettersi a posto. Le nuove proiezioni verranno fatte quando altri dettagli saranno chiariti, ma nemmeno in Italia Basilea 3 costringerà le banche a nuove emissioni azionarie: non serviranno aumenti di capitale in Unicredit e Intesa Sanpaolo, e nemmeno nel Monte dei Paschi e nel Banco Popolare che, è vero, non potranno più tenere i Tremonti bond nel common equity, ma solo dal 2016.
Svantaggiate
Non per questo Basilea 3 rappresenta un successo per le banche italiane. Sono riuscite, certo, a non farsi mettere in ginocchio sul capitale, perché la franchigia del 10% sulle tasse differite attive e la gradualità nella deduzione delle minoranze e delle partecipazioni attenuano di molto l’impatto. Ma, diciamolo, sarebbe stata un’insultante presa in giro con quel che è appena successo nel mondo. In realtà Basilea 3 indebolisce le banche italiane e tutte quelle vicine all’economia reale rispetto alle concorrenti anglosassoni, svizzere e nordiche più vocate alla finanza. E le indebolisce sia nella raccolta dei fondi sui mercati internazionali che in Borsa.
Il non aver penalizzato nella ponderazione degli attivi le attività più pericolose — dal trading finanziario in proprio, ma con i fondi di terzi, alla speculazione sui derivati — regala a chi le pratichi rendimenti del capitale ben più alti di chi faccia credito. L’America già indica la strada, con Goldman Sachs che giura di non fare più trading proprietario, ma poi riunisce i suoi banchieri in un hedge fund che continua a farlo e nel quale ha la sua bella partecipazione. L’Europa sta seguendo .
Gli enormi rischi della finanza tornano a essere considerati remoti, nonostante la fresca esperienza del contrario, e pesano meno di quel che dovrebbero nei ratios patrimoniali. I rischi certi del credito commerciale durante la recessione pesano subito in tutta la loro consistenza.
Le banche italiane si tengono liquide per poter affidare la clientela, e la liquidità rende molto meno della finanza. E se poi sei una banca operante in un paese a lenta ripresa con un governo discusso sulla stampa internazionale, i mercati ti affibbiano un rischio paese più alto e il costo della tua raccolta sale. Il Regno Unito o gli Usa hanno debiti globali superiori e debiti pubblici largamente mascherati, ma le agenzie di rating faticano ad aprire gli occhi e costituiscono un arbitrario vantaggio per le banche anglosassoni. La pressione si sente anche da noi. Il caso di Intesa Sanpaolo è esemplare. Considerata tra le banche più solide d’Europa durante la crisi, Intesa Sanpaolo viene ora penalizzata in Borsa perché troppo legata alla clientela minuta italiana e la reazione fatale — quasi un riflesso condizionato — diventa la nuova accentuazione sull’attività finanziaria e sul credito ai grandissimi clienti, un settore che il 30 giugno scorso per la prima volta dà un risultato superiore a quello della Banca dei territori.
Il caso Intesa
Sospinta dalla crisi e dalla pseudosoluzione in atto, la Borsa sta dando sentenze singolari. Che mettono in discussione la logica delle concentrazioni bancarie italiane. Ricordate? Una delle ragioni della fusione tra Banca Intesa e Sanpaolo Imi — non l’unica, ma nemmeno l’ultima — era la costruzione di un gruppo troppo grande per poter essere aggredito. A Torino si giustificò la scelta dicendo che il Santander stava per lanciare un’Opa sul Sanpaolo, irresistibile date la sproporzione tra i soggetti. Ebbene, alla vigilia della fusione, il 26 agosto 2006, il Santander valeva in Borsa 75 miliardi di euro, il Sanpaolo 25,5 e Intesa 34,9; adesso, la banca spagnola vale 82 miliardi, e Intesa Sanpaolo 31. Se ieri c’era pericolo, che si dovrebbe dire oggi?
Bisognose di dividendi per i loro scopi sociali, le fondazioni hanno sempre meno la capacità di difesa, specialmente se i requisiti di capitale aggiuntivi imporranno gli aumenti di capitale al momento scongiurati. E allora, assieme a Basilea 3, torna d’attualità la Vigilanza virile, che si assume la responsabilità dei sì e dei no in base all’interesse nazionale, senza più la cieca fiducia nei padroni del mercato che, sul fronte bancario, hanno fallito e, certo, senza nemmeno la nostalgia della banca asservita ai partiti.