Antonio D’Orrico, Corriere della Sera 18/09/2010, 18 settembre 2010
CALVINO, IL REBUS SENZA SOLUZIONE
Una volta Italo Calvino disse al suo editore parigino: «Sono uno scrittore francese». E i francesi lo ricambiavano. Quando Calvino se ne andò, nella notte tra il 18 e il 19 settembre del 1985, dopo un’ agonia di 12 giorni, «Le Monde» lo celebrò così: «Lo scrittore italiano Italo Calvino - l’ autore del Visconte dimezzato, del Barone rampante e del Cavaliere inesistente - considerato come uno dei maestri della letteratura contemporanea, è morto all’ ospedale di Siena». Uno dei maestri della letteratura contemporanea. Anche l’ Italia lo celebrò e lo pianse (e ci mancherebbe), però Geno Pampaloni, gran sacerdote della critica nazionale, chiuse il suo coccodrillo, che pur conteneva accenti di commozione e lodi sincere, con un verdetto che sapeva di assoluzione per insufficienza di prove: «Calvino è stato uno dei maggiori, senza alcun dubbio, tra i minori del Novecento europeo». Come gli scorpioni, il necrologio di Pampaloni aveva il veleno nella coda. A 25 anni dalla morte, è forse arrivato il momento di stabilire se Calvino è stato uno dei maestri della letteratura contemporanea oppure uno dei maggiori tra i minori. Per farlo bisognerebbe però capire, preliminarmente, chi fu davvero Calvino. Giulio Nascimbeni diceva che di Calvino ce n’ erano almeno quattro. Calvino Numero Uno: quello lirico-epico del Sentiero dei nidi di ragno, il romanzo che raccontava la Resistenza come un libretto di melodramma. Calvino Numero Due: l’ etnologo/antropologo che aveva raccolto e riscritto Le Fiabe Italiane, diventate bestseller perfino negli Stati Uniti. Calvino Numero Tre: quello blasonato e araldico della Trilogia Visconte-Barone-Cavaliere, un Ariosto redivivo. Calvino Numero Quattro: quello spaziale e algebrico di Ti con zero e delle Cosmicomiche. Qual è quello vero? Nascimbeni, una volta, glielo chiese direttamente e Calvino, che non parlava quasi mai e diventava pressoché muto nelle interviste, rispose: tutt’ e quattro. Sono davvero quattro i Calvino? La questione non è pacifica. Geno Pampaloni sosteneva che di Calvino ce ne sono tre. Quello fantastico del Barone. Quello balzachiano (la commedia umana) della Nuvola di smog (e non, specificava il critico, della Giornata di uno scrutatore, il racconto che pure aveva fatto delirare il pubblico di sinistra e il Partito comunista, in particolare, partito a cui lo scrittore aveva molto aderito per poi staccarsene, dopo i fatti ungheresi, per poi, ancora, riavvicinarsi ma tenendo una distanza, diciamo, di cortesia come quella che si deve rispettare oggi quando si sta in coda in farmacia o in banca). Il terzo Calvino, secondo Pampaloni, era lo scienziato (un po’ pazzo) delle Città invisibili, libro che il critico giudicava di «intrepida» fattura, il più bello dello scrittore assieme al Barone. Sul Barone e immediati dintorni non si discute. Umberto Eco, su «Le Monde», era stato chiarissimo: «Quando Il Barone rampante fu pubblicato (1957), capimmo - noi che avevamo dieci anni di meno di Calvino - che avevamo in lui lo scrittore della nostra generazione». Però Eco spariglia tutto scrivendo che La giornata di uno scrutatore è «uno dei testi di più alta e più grande religiosità che ho mai incontrato». Pampaloni, che pure era molto cattolico, lo considerava invece un testo debole. Nascimbeni diceva che Calvino era un rebus. Forse anche per lo stesso Calvino. Chi era? «Un ragioniere paranoico», come si definì da solo? Oppure «un fanatico dell’ opera chiusa e degli schemi lineari, inguaribile potatore d’ ogni fronzuta vegetazione lirica in una geometria di stecchi razionalistici»? Potatore di fronzute vegetazioni, lui, figlio di un botanico, lo fu sul serio. Ernesto Ferrero, che lavorò alle sue strette dipendenze nell’ ufficio stampa della casa editrice Einaudi, ha raccontato che Calvino «aveva un odio satanico per gli aggettivi» e che glieli cassava tutti, quando gli correggeva i testi, urlando: «Basta! Ma che cos’ è questo aggettivo, ma cosa ci sta a fare? Ma non si parla con gli aggettivi, si parla con i sostantivi». Ferrero racconta un’ altra cosa bellissima. Correvano gli Anni Sessanta, andarono in una balera e Calvino imbroccò o fu imbroccato (buona la seconda, verrebbe da dire, vista la sua proverbiale, quasi patologica, timidezza) da una prosperosa signora russa, alla quale confessò: «Io alla donna, nell’ alcova, vorrei sempre poterle dare del lei». E qui si aprirebbe, ma dobbiamo chiuderlo subito perché c’ è una sentenza del tribunale a proposito, il capitolo delle 197 lettere d’ amore proibite scritte da Calvino all’ attrice, fatalissima, Elsa De’ Giorgi, durante una tempestosa liaison che ci svela un quinto Calvino, quasi milleriano (nel doppio senso dell’ Henry Miller di Tropico del Capricorno e dell’ Arthur Miller, il marito di Marilyn Monroe), capace di missive calienti del seguente tenore: «Ti desidero tanto che la prima volta che t’ avrò tra le braccia penso che ti sbranerò, ti strapperò le vesti, mi rotolerò su di te, non so cosa farò per sfogare questo infinito desiderio di baciarti, premerti, averti, amore, donna mia, idolo, strazio». Dove si vorrebbe far notare (a livello di critica letteraria) che lo scrittore, coerentemente, non abusa di aggettivi nemmeno quando è trascinato nel gorgo della passione. Mentre, incoerentemente, dà alla De’ Giorgi del tu e non del lei. Alla fine aveva ragione lui, Calvino. Era uno scrittore francese (per quanto riguarda le lettere a Elsa, decisamente flaubertiano), nato per puro caso a Cuba e approdato poi in Italia, nella capitale della canzone nazionale, la Sanremo dell’ omonimo e patriottico festival (quanto di più anticalviniano si possa immaginare). Anche Goffredo Parise era dell’ idea: «Non si può dire che Calvino sia stato uno scrittore italiano-cattolico-romano. È stato, invece, internazionale, laico e, semmai, parigino. Questo è il suo maggior onere: noi viviamo sempre nel "brodo del Manzoni", da cui Calvino per fortuna era fuori. Morto lui, la cultura italiana ripiomberà in pieno nel brodo manzoniano. Calvino ha dato un apporto di tipo francese alla stanca, vecchia e provinciale cultura letteraria italiana». Antimanzoniano? Ma nemmeno per sogno! Per Pietro Citati, che è stato suo amico e vicino di casa a Roccamare, in Maremma, la mente di Calvino era «complicata, labirintica, avvolgente, sinuosa, architettonica, paragonabile solo a quella di Manzoni». Il rebus è insolubile? Forse la verità su Calvino la capì Giovanni Arpino, suo collega di scrittura e anche d’ ufficio (Einaudi). Arpino scriveva: «Calvino non rideva quasi mai, non beveva, non fumava». Comportamenti incomprensibili per uno come Arpino che rideva spesso, beveva, fumava e andava persino allo stadio a vedere le partite di pallone. Una volta Arpino, incontrando Calvino al festival di Venezia (dove era presidente della giuria), gli disse: «Sembri il papà di un astronauta». E Calvino: «Davvero? Ma no: vorrei essere il papà di un missile». Era proprio così. Calvino è stato il Von Braun della letteratura italiana. I suoi romanzi erano razzi che partivano dalla Terra verso la Luna e oltre. Stiamo ancora aspettando il loro ritorno perché sono ancora in volo, il propellente non l’ hanno esaurito.
Antonio D’Orrico