Eva Cantarella, Corriere della Sera 18/09/2010, 18 settembre 2010
LE SVENTURE DI ADRIANO SOTTO I COLPI DEI «TONSORES»
Andare dal barbiere poteva essere un’ esperienza poco gradevole, a Roma antica. I tonsores (così si chiamavano i barbieri) avevano la mano pesante, martoriavano il cliente, gli tagliuzzavano il viso... Così, quantomeno, dicevano i poeti satirici, che amavano sbeffeggiare la categoria: «I segni che ho sul mento - dice un personaggio di Marziale - non me li hanno fatti le unghie di mia moglie inferocita, ma la mano e il ferro scellerato di Antioco» (XI, 84). Esagerazioni, certo, ma un fondo di vero doveva esserci. Gli strumenti dei barbieri non erano esattamente raffinati, allora. Maneggiare il rasoio (culter tonsorius) richiedeva grande abilità, soprattutto considerando che non esistevano creme da barba e simili: l’ unico espediente per rendere l’ operazione meno sgradevole consisteva nell’ inumidire la pelle del cliente con un po’ di acqua tiepida. Andare dal tonsor, se non era più che bravo, poteva essere veramente una tortura. Ma la popolarità della categoria crebbe (e con essa la possibilità di ottimi guadagni) quando, a partire II secolo dopo Cristo, diventò di moda farsi crescere la barba. A dare l’ esempio si dice sia stato l’ imperatore Adriano, che avrebbe così tentato di nascondere una cicatrice lasciata da una rasatura. E poiché insieme alla moda della barba si diffuse anche quella di esibire chiome lunghe e inanellate, i romani presero ad affollare le botteghe dei tonsores non solo per farsi arricciare i capelli con un ferro scaldato al fuoco (calamistrum), ma anche per tingerli (era diventato di moda il biondo) o per farsi fare un bel riporto (ahimè, lo portava anche il grande Cesare). La calvizie era considerata poco virile. E Marziale, implacabile: «Niente è più turpe di una calvizie capelluta» (X, 83). Come non dargli ragione?
Eva Cantarella