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 2010  settembre 17 Venerdì calendario

UN’AGENZIA NAZIONALE PER LA RICERCA CONTRO LA BUROCRAZIA E LE CLIENTELE

La protesta dei ricercatori, molto spesso supplenti a vita, è il segno del malessere dell’ Università. Ma al di là delle questioni sindacali, è l’ impegno dell’ Italia nella spesa in ricerca che oggi merita una revisione stringente: da questa porta stretta, infatti, passa il riposizionamento del Paese nella divisione internazionale del lavoro che, con la Grande Crisi, sta cambiando. L’ Italia sembra impiccata a due tristi percentuali: la ricerca, esclusa la militare, assorbe l’ 1,1% del Prodotto interno lordo contro il 2,3% dei Paesi Ocse. Di qui un pessimismo assoluto e assolutorio. Eppure, il buono su cui far leva ci sarebbe. Ma prima, con l’ aiuto dell’ Annuario Scienza e Società 2010, redatto da Massimiliano Bucchi e Federico Neresini per il Mulino, va capito cosa c’ è dietro quell’ 1,1%, che vale 17,2 miliardi di euro. Secondo le statistiche, la mano pubblica spende 7,8 miliardi, quanto la sola Toyota. Il settore privato spende invece 10,3 miliardi. Ma il suo contributo, pari allo 0,6% del Pil, è largamente inferiore a quello medio del settore privato dell’ Ocse, pari all’ 1,6%. Sempre per avere termini di paragone, le due multinazionali svizzere, Roche e Novartis, fanno un po’ di più dell’ intero settore privato italiano. Il problema, dunque, esiste, ed è serio. E c’ è una doppia distorsione a complicarlo: la spesa pubblica in ricerca, infatti, è sopravvalutata perché contabilizza gli stipendi di metà dei docenti universitari; quella privata è sottostimata, perché le aziende di minor dimensione non evidenziano le spese per ricerca e sviluppo (R&S) mentre la bilancia tecnologica dell’ Italia - il saldo tra spesa per l’ acquisto di know how e ricavi per la vendita del medesimo - rimane positiva anche nel 2009. Attenti, però, a non strumentalizzare questo dato a fini consolatori. La bilancia tecnologica è diventata attiva nel 2006 dopo 25 anni in deficit. Il declino della grande impresa, motore visibile di ricerca e innovazione, è stato contrastato dagli invisibili fuori statistica. Ma dopo aver detto che la nuova Italia delle multinazionali tascabili è meglio della vecchia Italia dei grandi gruppi, si deve anche vedere che l’ uso di tecnologie, in termini di volumi, è 8-9 volte inferiore a quello della Germania. D’ altra parte, il saldo positivo della bilancia tecnologica, dopo aver superato gli 800 milioni nel 2007 è calato a 186 milioni l’ anno scorso. La recessione, certo. Ma come ne uscirà il sistema delle imprese? All’ Italia serve una locomotiva? Se sì, dove trovarla? Le imprese, specialmente le medie, possono dar vita a uno sviluppo diffuso, molecolare. E i campioni nazionali? Fiat e Finmeccanica si alternano in testa alla classifica delle spese in R&S e da sole fanno il 36% del settore privato: difficilmente potranno spingere di più. L’ Eni si ferma a 216 milioni, niente. Telecom ne fa 700, Unicredit e Intesa Sanpaolo 450 in due, ma tutto dipende da che cosa si contabilizza. E questo dice che la nuova locomotiva della ricerca, specialmente in quella di base, non può che essere trovata oltre le imprese, nel settore pubblico e nel privato che persegue finalità di pubblico interesse. Però oggi il settore pubblico allargato non riesce a svolgere un vero ruolo trainante. In parte per scarsità di mezzi, in parte perché lavora in modo burocratico, clientelare, senza verifica: la spesa è così parcellizzata tra ministeri e regioni che se ne hanno soltanto stime vaghe e manipolate. È un peccato. La produzione scientifica italiana è scarsa perché i ricercatori sono pochi (3,6 ogni mille occupati contro i 6 della Ue), ma la bibliometria dice che la produttività è alta (38 citazioni per ricercatore italiano contro le 51 dell’ inglese, le 32 del tedesco e le 26 del francese). Nel 2009, l’ European Research Council ha selezionato 32 progetti proposti da italiani. Un record. Solo la Germania vanta un numero uguale. E tuttavia solo la metà di tali progetti proviene da enti italiani. I britannici hanno ottenuto l’ ok su 18 progetti, ma il Regno Unito, favorito anche dalla lingua, guida la classifica per Paese, con ben 43 progetti, mentre l’ Italia è al settimo posto. Il sistema formativo italiano, oggetto di tante e talvolta pelose reprimende, è tuttora in grado di sfornare cervelli, ma il Paese non sa trattenerli e meno che mai attrarne da fuori. Insomma, l’ Italia investe in formazione a beneficio degli altri. Una beffa. Se i soldi son pochi, è ancor più necessario usarli al meglio. Nei giorni scorsi, il Gruppo 2003, che riunisce buona parte degli 80 italiani più citati sulle riviste scientifiche internazionali, ha sottoposto l’ idea di una Agenzia nazionale per la ricerca al vaglio informale di alti esponenti della ricerca, dell’ Università, del non profit, delle fondazioni bancarie, dell’ industria. Formata da scienziati e gestori tecnici di risorse, sulla base delle linee guida e degli stanziamenti del governo, l’ Agenzia dovrebbe accentrare in un’ unica mano i fondi oggi dispersi tra ministeri e regioni e assegnarli ai progetti sulla base di criteri oggettivi (la cosiddetta peer review, il parere dei colleghi autorevoli), seguendone lo stato di avanzamento e controllando infine i risultati. Ovvietà? Non in Italia. Dove manca uno sportello serio, trasparente e affidabile verso il quale possano convergere anche le risorse private, garantite dalla certezza dell’ approccio professionale. Sarebbe un nuovo carrozzone? No, se i costi dell’ Agenzia si limiteranno al 2-3% dei fondi intermediati e saranno in buona parte compensati dalla chiusura dei comitati attuali e dal riutilizzo di personale ministeriale, senza contare il maggior rendimento delle risorse. La vera domanda, in realtà, è un’ altra: sapranno mai, ministri e governatori, rinunciare a parte delle loro satrapie? Il dubbio è dettato dall’ esperienza e così, nell’ incontro promosso dal Gruppo 2003 e ospitato dal Corriere della Sera, si è trovata una prima intesa sull’ idea di un’ Agenzia nazionale sì ma limitata in prima battuta al ministero dell’ Istruzione, dell’ Università e della Ricerca e a quello della Sanità. Una lunga marcia comincia da un piccolo passo. Ma nessun passo sarà mosso se gli scienziati non prenderanno in mano il loro destino.
Massimo Mucchetti