Giorgio Dell’Arti, La Stampa 18/09/2010, PAGINA 84, 18 settembre 2010
VITA DI CAVOUR - PUNTATA 34 - MASSIMO E IL RE
Come «star fermi», scusi? E il Risorgimento? I patrioti? I moti? Mazzini?
I moti, già. Siracusa, Catania, Messina e paesotti vari di quelle zone. Cosenza, Penne, Salerno, Avellino, Napoli, L’Aquila. Bologna, Imola. I fratelli Bandiera. Un’impressionante sequenza di fallimenti. Gli ennesimi moti inutili della Romagna avevano però prodotto un cambiamento nelle teste dei patrioti. Le società segrete, le congiure, la Carboneria, la Giovine Italia non avevano portato da nessuna parte. Doveva esserci un altro modo. Uscì il Primato degli Italiani, dell’abate Gioberti, in cui si sosteneva che la soluzione era una federazione tra gli stati della Penisola con il Papa al comando. Subito dopo, nelle Speranze d’Italia, Balbo riproponeva la vecchia idea dell’indipendenza per via diplomatica, dare all’Austria territori in Oriente e permettere poi una confederazione degli stati italiani finalmente liberi dell’influsso austriaco. Intanto, i patrioti dell’Italia centrale accostavano Massimo d’Azeglio e gli chiedevano di assumere in qualche modo la direzione del movimento.
Il movimento era qualcosa di così ben definito che qualcuno poteva prenderne la direzione?
Si trattava «di rannodare, dirigere e raffrenare al bisogno tante volontà, tanti desideri, tante idee in contrasto e prive d’ogni disciplina». Massimo fino a quel momento aveva fatto il pittore a Milano e attraversava uno dei suoi periodi di noia. Fece un giro per l’Italia centrale e si convinse che l’unica era puntare sul Piemonte e sui Savoia. Ai liberali, stupiti che si potesse ancora prendere in considerazione uno come Carlo Alberto, traditore nel ‘21 e massacratore di patrioti nel ‘33, fece quel celebre ragionamento: «Che cosa volete voi altri - ed io con voi - Volete metter fuori d’Italia i Tedeschi, e fuor dell’uscio il Governo de’ preti? A pregarli che se ne vadano, è probabile che vi diranno di no. Bisognerà dunque sforzarveli; e per sforzarli ci vuol forza, e voi la forza dove l’avete? Se non l’avete voi, bisogna trovare chi l’abbia. E in Italia chi l’ha - o per dir meglio - chi ne ha un poco? Il Piemonte: perché almeno ha una sua vita indipendente; ha denari in riserva, ha esercito, armata». Spiegava che, in definitiva, si trattava di persuadere il re di Sardegna a ingrandirsi, cioè a fare il suo interesse. «Se invitate un ladro ad esser galantuomo, e che ve lo prometta, potrete dubitar che mantenga; ma invitar un ladro a rubare, e aver paura che vi manchi di parola, in verità, non ne vedo il perché».
Si convinsero?
A parte Mazzini, sì. Massimo ottenne pure un appuntamento dal re. Fu ricevuto alle sei di mattina e fatto accomodare nel vano di una finestra, su certi sgabelli dorati e foderati di seta verde. Fece il suo discorso sull’inutilità delle società segrete e dei moti, e sul fatto che il movimento era ormai abbastanza disposto a far conto su di lui. Il re rispose: «Faccia sapere a que’ Signori che stiano in quiete e non si muovano, non essendovi per ora nulla da fare; ma che siano certi, che, presentandosi l’occasione, la mia vita, la vita de’ miei figli, le mie armi, i miei tesori, il mio esercito, tutto sarà speso per la causa italiana». Subito dopo, Massimo, già romanziere celebre per via dell’Ettore Fieramosca, scrisse il terzo best-seller di quegli anni, cioè il famoso Degli ultimi casi di Romagna. Era il 1846.
In ogni modo, d’Azeglio e gli altri non stavano fermi come Cavour.
Cavour credeva che costruire un trebbiatoio di nuovo tipo, aprire una banca, commerciare guano fosse un modo di far politica. L’unico modo possibile in quel momento. Aiutando il paese a svilupparsi e rinnovarsi, la gabbia del vecchio regime assolutista sarebbe venuta giù da sola. Forse. E poi, su questo cosiddetto «star fermi» era d’accordo pure Massimo. «Il da farsi per ora è niente ovvero la via da seguire è lo starsene fermi».
Però scriveva libri. Non era pericoloso?
Il re era d’accordo. Lo scriver libri era stato teorizzato. «È vero che non era nelle mie idee che non vi fosse proprio da fare nulla affatto L’idea in sostanza era questa metter la questione sul campo, ove ogni individuo una forza l’ha sempre, purché non sia un idiota e voglia rischiare il collo: il campo della opinione e della pubblicità». Però, devo dirle, quanto a scrivere, scriveva anche Cavour.
Sì?
Sì. Mentre faceva soldi col grano o con le traversine ferroviarie, il conte pubblicava pure piccoli saggi, in genere destinati alla «Bibliothèque universelle de Genève» di Augusto De La Rive. L’agricoltura meridionale, la questione irlandese, le leggi britanniche sul grano, tutte faccende che gli procurarono una bella fama all’estero. Testi-base del pensiero liberale. La supremazia del sistema parlamentare inglese. Il libero scambio, cioè farla finita con dazi dogane pedaggi piazzati dappertutto per rimpinguare le casse dei re. E all’ultimo, il suo articolo più famoso, quello dedicato alle ferrovie. Ne avrà sentito parlare anche lei: Des chemins de fer en Italie.