Umberto Eco, L’espresso 23/9/2010, 23 settembre 2010
EL ME’ ARISTòTIL
Non ci crederete, ma chiedendo su Internet una voce poco comune (Marin Mersenne, un contemporaneo di Cartesio) mi sono ritrovato un testo di Wikipedia in piemontese. Incuriosito, ho cercato meglio, e ho trovato che moltissime voci si possono trovare tradotte (oltre che in tutte le lingue di nazioni che siedono all’Onu, alcune in alfabeti per noi illeggibili) anche in Asturiano, Sardo, Siciliano, Corso, Galiziano, Interlingua, Maori, Occitano, Swahili, Veneto, Volapük, Yoruba e Zulù. Naturalmente sono stato attratto dai dialetti italiani e, lasciato da parte il buon padre Mersenne, che troverebbe impreparati molti dei miei lettori, mi sono appuntato su Aristotele che, essendo il maestro di color che sanno, è anche il maestro dei lettori de "L’espresso". Di lui si dice in piemontese che "Aristòtil a l’era nassù a Stagira (an Macedònia) dël 384 aGC e a l’é mòrt a Calcis (ant l’Eubéa) dël 322 aGC. A l’ancamin dissìpol ëd Platon, Aristòtil a fonda tòst soa pròpia scòla filosòfica a Atene, ël Licéo. Soa curiosità anteletual a l’ha tocà tuti ij domini dla conossensa". Come neppure Camilleri oserebbe, si annota in siciliano che "Ntô 348/7, annu dâ morti di Platoni, ntô mumentu ’n cui lu filòsufu Spiusippu veni disignatu a succèdiri ô mastru ntâ dirizzioni dâ scola, Aristòtili abbannuna l’Accadèmia nzèmmula a Senucrati. Havi nizziu accussì lu pirìudu di li viaggi: Aristòtili suggiorna prima a Atarneu, pressu lu tirannu Ermia, appoi a Mitileni, nta l’isula di Lesbo; ’n stu pirìudu si didica â ricerca e forsi macari ô nzignamentu (sècunnu Jaeger avissi funnatu a Assu, nzèmmula ê filòsufi Senucrati, Erastu, Còriscu na sorta di succursali di l’Accadèmia)".
Giunti al sardo si specifica che "Custu artìculu est unu abotzu. Lu podes modificare e lu fàghere mannu e bellu. Agiudanos!". Ma in veneto si apprende che "e òpere de Aristotele e se divide in scriti acroamàtisi o exotèrisi, chei i xé spunti per e lesion del fi- òxofo, e esotèrisi, fati per el pùblico. Sti ùltemi i xé un grupo de dià oghi, un protrètico (testo chel conségia a fi oxofia) e un su a fi oxofia. I exotèrisi invese i xé dixisi in testi de metafìxica, in quatòrdexe libri, chei demostra a progresiva destinsion del pensièr de Aristotele da queo del maestro Platon, i ga come tema prinsipal a sostansa". Trovo in Bân-lâm-gú che "Chit phin bûn-chiun s chit ê phí-á-kián", e non posso che consentire. È però curioso che manchi la versione in lombardo, segno che l’iniziativa non risale ai sindaci leghisti che mettono i nomi delle strade in dialetto (o costoro non hanno mai sentito parlare di Aristotele). Ora, devo confessare che sentir dire in piemontese che "Aristòtil ant J’analìtich (anté che analìtich a l’é lòn che al di d’ancheuj a l’é dit lògica), a definiss ël silogism, na sòrt dë schema lògich. A men-a anans cost ëstudi con d’arflession an sla dimostrassion e l’andussion", mi fa una certa tenerezza. Ma me la fa perché mi ricorda quando al liceo ci si divertiva a ridire in dialetto quel che i professori ci insegnavano in italiano. Salvo che parlavano meglio dialetto, e quindi ci facevano più ridere, quelli che in casa non avevano mai parlato italiano, e quindi alla maturità se la sarebbero cavata meno bene, non dico in italiano, ma persino in filosofia, perché non sapevano esprimere con chiarezza i concetti.
Infatti il dialetto, ottimo per il comico, il familiare, il concreto quotidiano, il nostalgico-sentimentale, e spesso il poetico, alle nostre orecchie deprime i contenuti concettuali nati e sviluppatisi in altra lingua. Chiedetevi perché "il pensiero di Aristotele ha come tema principale la sostanza", tradotto in tedesco non fa ridere, e tradotto in veneto sembra Arlecchino servo di due padroni. Inoltre chi fosse pur capace di riassumere tutto Aristotele in piemontese, non riuscirebbe a raccontarlo a chi parlasse non dico siciliano ma persino lombardo - se si pensa che una volta, leggendo una raccolta di poesie dialettali in alessandrino, mi sono trovato a un certo punto imbarazzato di fronte a una poesia scarsamente comprensibile, e ho poi scoperto che era scritta nel dialetto di Casalbagliano, che da Alessandria dista soltanto sei chilometri.
Le lingue nazionali sono servite nel corso della storia a unificare le culture locali, e nel bailamme di dialetti africani cara grazia che sia esistito lo swahili in cui diverse genti di etnie diverse hanno potuto comprendersi e fare affari. Tornare alla conoscenza del dialetto (o non perderla) è fondamentale per conservare le nostre radici, ma sostituire i dialetti alle lingue nazionali, come vogliono alcuni sconsiderati, significa ripiombare nel ghetto tante popolazioni che avevano avuto la possibilità di guardare al di là dei confini del loro villaggio.