Pietrangelo Buttafuoco, Panorama 23/09/10 (uscita 17/9), 23 settembre 2010
CARI CRITICI, PRENDETEVI UN ANNO SABBATICO
Si torna sapendosi attesi. Che prezioso sciamano è Pupi Avati se poi da solo, senza comparaggi culturali, riesce a render viva la tenerezza di storie di pura emozione. Non ho ancora visto il nuovo film, "Una sconfinata giovinezza", la pellicola con Francesca Neri e Fabrizio Bentivoglio, ma posso metterci la mano sul fuoco quanto a suggestione confidando nei racconti dei tecnici, delle troupe e perfino dei falegnami, tutti quanti altrimenti sgamati di cinismo cinematografico e concentrati solo sul cestino del pranzo: «Alla fine di ogni azione scoppiavano sul set applausi a scena aperta».
Ecco, Avati, davvero succedeva questo durante la lavorazione del film?
«Ha presente il tecnico con lo stuzzicadenti in bocca?Ecco, proprio quello: lo vedevo asciugarsi le lacrime».
La storia di Chicca e Lino, dunque.
«Racconto come nella vita di una coppia matura e serena, all’improvviso, entri la malattia. Lui, un giornalista sportivo di successo, uno che nella parola ha lo strumento più importante, viene colpito dall’Alzheimer. La patologia lo induce a regredire a uno stadio infantile. A un certo punto, insomma, il malato se ne va, non ha più cognizione dei propri anni e a soffrire per lui resta chi gli sta accanto, la moglie in questo caso. E nel racconto di Chicca e Lino, che è la storia di un matrimonio che si regge su un grande dolore, la mancanza di figli, l’amore riesce a traslare quello che era il rapporto fra un marito e una moglie in un aspettato incontro. Quello tra un bimbo e una madre».
Lino non è più malato, ma un bambino?
«I malati di Alzheimer restano tali, purtroppo. Non ho voluto girare un film consolatorio, nè cinico: aggiungere dolore a dolore, proprio no. E non ho fatto un film di denuncia. Mai denunciato nessuno o nessuna cosa con la mia filmografia. Sono entrato con cautela in queste pagine di letteratura medica. Ho studiato tanto, mi sono consultato con gli esperti, mi sono anche reso conto che con l’aumento dell’aspettativa di vita le malattie degenerative del cervello saranno sempre più in espansione. Nel mio film ci sono due brave persone alle prese con un dramma che le trasforma. Lino è in un mondo dove tutto è possibile, perfino resuscitare i morti. Chicca, costretta alla consapevolezza, va invece incontro al nuovo universo in cui vive il marito e si ritrova ad acquistare un giocattolo. Lei, che non ne aveva mai comprati, deve rispondere al commesso che le chiede l’età del bambino».
Struggente, terribile...
«E il bambino, ovvero Lino, è una persona che riscopre se stessa. Brandelli del passato prendono possesso di lui, un’identità sconosciuta prende il sopravvento nelle sue giornate».
Il tempo offre dunque una nuova forma, una nuova vita.
«Sono sempre stato affascinato dal tempo. Si ha sempre
nostalgia della giovinezza, ma io che sto vivendo il secondo tempo della seconda parte che mi è concessa in questa vita, sento di essere sedotto dall’infanzia, vive dentro di me la magia di un ritorno a casa, dai genitori. E con la gioia di sapersi attesi».
Perché non «Una sconfinata infanzia», allora? Perché nel titolo c’è il richiamo alla giovinezza, se invece è la vita bambina che fa capolino nel destino di tutti noi?
«La giovinezza è una categoria più immediata, tutto qua».
L’infanzia reclama pudore?
«Certo, e io mi sono armato di pudore nel realizzare questo film. E poi d’affetto. Tanto. Ho imparato questo mestiere molti anni fa, quando facevo da aiuto regista a Vittorio de Sica. Con il rispetto e l’ammirazione dovuti a lui, quando lo osservavo mentre si dedicava agli attori, vedevo come questi gli restituivano tutto davanti alla cinepresa. Davano tantissimo, il meglio e io gli chiedevo: “Ma come riesce, maestro, a ottenere da loro tutto questo?”. E lui mi ha dato una risposta che considero preziosa adesso quanto può esserlo il segreto per fare bene il mestiere di regista. Mi disse: “Voglia bene a loro e loro le daranno tantissimo”. Ecco, io voglio bene agli attori con cui lavoro, voglio bene ai loro personaggi e mi rendo conto che le mie storie sono storie di brave persone».
Anche questo film diventerà un romanzo?
«È già un libro. Come gli altri. E come gli altri uscirà per Garzanti il 4 ottobre. Nella stessa data di uscita in sala della pellicola».
Tocchiamo una nota dolente?
«Venezia, vero?».
Sì.
«Ma quando uscirà l’intervista la Mostra sarà già bella che archiviata, cosa dobbiamo aggiungere ancora? Ho masochisticamente esposto me stesso alla disfatta. Mi sono esposto, fuori da ogni mia abitudine, con l’essere stato bloccato sulla soglia col mio film. Ho dichiarato, ho parlato, ho protestato...».
...contro la parrocchietta ideologica.
«Ecco, appunto. E cosa dovrei dire ancora, che ci vorrebbe un anno sabbatico e liberarci, almeno per una anno, dal coté intellettuale, dai critici, dalle conferenze stampa e dagli accrediti per tutta quella pletora di parassiti che si stanno portando via, con il loro dilettantismo, la cinematografia? Non posso più vivere con l’ossessione della commissione d’esami di maturità».
I professori?
«Sì, sono loro, sotto mentite spoglie di giurie, di critici e di varia umanità. La commissione di esami alla maturità è quella che ha rovinato la mia giovinezza e vedo che mi sta perseguitando anche adesso, adesso che si dovrebbe godere la stagione della creatività pura. Priva di alcun supporto di grafomani e di queruli. Sa quanti film si producevano in Italia nel 1968? Dai 300 ai 400 titoli. E c’erano al massimo 25 critici a visionarli e a recensirli. Oggi l’Italia ne sfornerà al massimo 70 di titoli. Ebbene, un esercito sterminato di critici in poltrona fa da controcanto vacuo a questa miseria creativa».
La parrocchietta, Avati, è la parrocchiettà. Eppure è strano come nei suoi film molti attori che sono cari alla parrocchietta, messi alla prova, tutti in grande prova, e con grandi risultati, non riescano a scalfire il muro del conformismo. Quello dei critici.
«Un eccellente Antonio Albanese, un fantasctico Neri Marcorè, uno strepitoso Fabrizio Bentivoglio...».
Facciamo così. Lo dico io e così non coinvolgo nella polemica il maestro: a differenza di Pier Paolo Pasolini, che prendeva Totò e lo massacrava facendogli fare Uccellacci e uccellini, lei prende un Silvio Orlando, lo depura di ogni crosta ideologica e ce lo restituisce quale maschera sublime.
Il regista di Una sconfinata giovinezza tace. E chissà se acconsente.