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 2010  settembre 17 Venerdì calendario

L’INARRESTABILE CORSA DELL’AUTO MONDIALE VERSO ASIA E SUDAMERICA

L’unica cosa sicura è che le auto hanno ancora quattro ruote, i sedili e un volante. Per il resto, è cambiato tutto. Con una metamorfosi a tratti violenta, in uno scenario in cui le gerarchie si sfaldano e gli equilibri si ricompongono a una velocità tale che l’occhio comune fatica a cogliere cosa stia capitando.

Sergio Marchionne ha più volte usato l’espressione «rivoluzione copernicana», per indicare i cambiamenti che hanno caratterizzato negli ultimi anni l’industria mondiale dell’auto. Mutazioni di cui sindacalisti, politici, intellettuali e imprenditori italiani, che ne criticano il radicalismo manageriale, non si sarebbero resi conto. Però, quelle parole le avrebbero potute pronunciare Carlos Ghosn di Renault Nissan, Akio Toyoda di Toyota, Alan Mulally di Ford. Chiunque stia dentro all’attuale globalizzazione, ipercinetica e senza tregua.

Il cambio di paradigma

Ma quando si è verificata questa cesura storica? Che cosa, negli ultimi anni, ha smosso il grande acquario della competizione globale? Proviamo a immaginare la Fiat come un pesce fra i tanti. E concentriamoci, appunto, sulla mutazione dell’acqua in cui tutte le case automobilistiche si trovano a nuotare. La sua composizione, il suo colore, le correnti che genera. I dati dell’Oica, l’organizzazione dei produttori di auto, raccontano lo spostamento del cuore del sistema verso l’Asia. «La maggioranza degli investimenti – nota Ralf Kalmbach, capo del settore automotive di Roland Berger – è naturalmente concentrata nei paesi emergenti: l’elemento nuovo degli ultimi dieci anni è che, oggi, anche i marchi europei di alta qualità realizzano le vetture in Asia, con standard propri della casa madre e con l’obiettivo di venderle alla borghesia medio alta che là si sta affermando». Dunque, non soltanto prodotti a basso prezzo. Sotto il profilo complessivo, nel 1999 nel mondo si producevano 56,2 milioni di auto, che dieci anni dopo sono diventate 61,7 milioni, quasi il 10% in più. Nell’Unione europea (a 15) allora si costruivano poco meno di 17 milioni di vetture all’anno. Adesso sono diventate 12 milioni, quasi un terzo in meno. I numeri relativi all’Italia mostrano lo svuotamento del nostro sistema produttivo, che sta assumendo le sembianze di un involucro sgonfio: da 1,7 milioni a poco più di 800mila, circa la metà. Negli Stati Uniti e nel Messico, da 17,6 milioni a 8,7 milioni: la metà, dunque. Il Sud America, che significa soprattutto Brasile, è ben più che raddoppiato: da 1,6 a 3,7 milioni. In Asia si è passati da 16,8 milioni a 31,7 milioni: +88 per cento. Impressionante il trend cinese: da 1,8 milioni a 13,8 milioni, dunque in aumento del 653 per cento. «Questo fenomeno – osserva l’industrialista Giampaolo Vitali, segretario del Gruppo economisti di impresa – va però letto in parallelo all’evoluzione delle immatricolazioni. Il che mostra come gli andamenti della produzione e del "consumo" di auto siano speculari: Europa e Stati Uniti sperimentano un calo drastico, mentre l’Asia è la nuova frontiera».

In tutto il mondo, l’anno corso sono state immatricolate 56 milioni di macchine, il 7,9% in più rispetto a dieci anni prima. Nell’Unione europea a 15, il calo è del 10,6% (da 16,5 a 14,8 milioni) e negli Stati Uniti e in Messico la flessione è del 36% (da 20,2 a 16,1 milioni). Interessante notare come il dato statistico rispecchi perfettamente l’idea che i due motori del mercato dell’auto siano Brasile e Asia. Il Brasile ha registrato un tasso di crescita del 110% (da 1,5 a 3,1 milioni) e l’Asia ha avuto il medesimo ritmo: +110%, da 10,3 milioni a 21,7 milioni. In Cina sono state immatricolate, nel 2009, 13,6 milioni di macchine, con un aumento del 552% rispetto a dieci anni prima. Dunque, spostatosi l’asse verso oriente, il problema è costituito dal futuro degli Stati Uniti e dell’Europa. Usa e Europa, bye bye

«Da questo punto di vista – spiega Kalmbach – il nodo industrialmente critico è rappresentato dal grado di utilizzo degli impianti, che cambia molto a seconda della loro collocazione geografica». Nel 1990, secondo i dati elaborati dalla società di consulenza con l’ausilio della consociata italiana, a livello globale era pari all’80%, nel 2009 con la crisi si è scesi al 61%, mentre quest’anno dovrebbe risalire al 68 per cento. Il problema, appunto, è la distribuzione fra un continente e l’altro: Asia e Sud America sono rispettivamente al 65% e al 67%, a fronte di un Nord America crollato al 46% e di un’Europa occidentale ferma al 58%. La proiezione futura di Roland Berger è particolarmente interessante proprio per i due grandi malati, appunto l’Europa e il Nord America: nel 2015 la prima dovrebbe tornare al 79% e il secondo all’89 per cento. «Un recupero di quaranta punti in cinque anni per gli Stati Uniti – commenta Vitali – ci potrebbe anche stare, per la capacità di crescita interna in grado di assorbire nuove auto e per la rapidità del mutamento del sistema produttivo: la chiusura, la ristrutturazione o la riapertura di uno stabilimento, in uno stato americano piuttosto che in un altro, sono improntate a una notevole elasticità. Diverso il discorso sull’Europa occidentale, dove i vincoli sociali e politico-giuridici sono maggiori». Asia e Sud America, come mercato di produzione e di "consumo", sono giovani. Dunque, è naturale che spesso abbiano anche stabilimenti relativamente nuovi. «Dentro alla già complessa condizione europea – afferma Giuseppe Russo, direttore dell’Osservatorio sull’automotive, istituito presso la Camera di Commercio di Torino – la situazione italiana è ancora più particolare: basti pensare che la fabbrica più recente è Melfi, che ha quasi vent’anni. E quando l’obsolescenza degli impianti diventa eccessiva, qualunque produttore può decidere di riammodernare, chiudere, ricostruire o fondare altrove. Quando lo devi fare, consideri una serie di elementi: il costo dell’energia e del lavoro, gli incentivi, ma anche le infrastrutture, la logistica e le relazioni sindacali. Succede a tutte le case automobilistiche, in qualunque paese». A proposito del costo del lavoro, secondo una stima di Kpmg i differenziali fra i paesi del primo mondo sono minimi: fatto 100 l’indice americano, in Francia è pari a 97,7, in Germania a 100,7, in Canada a 97,1 e in Italia a 98,8. Al di là del fatto che il costo del lavoro, in base ai metodi di calcolo e al modello di macchina, alla fine incida fra il 7 e il 12% del totale, la differenza fra il primo mondo e i mercati emergenti resta assai rilevante. Stando alle elaborazioni di Roland Berger, la media all’ora è di 21 euro negli Stati Uniti, 30 euro in Germania e 22 euro in Italia. Nella Repubblica Ceca si scende a 10 euro, in Slovacchia a 7 euro, in Bosnia a 4 euro. In Brasile si è a 5 euro e in Messico a 1,65 euro. In Cina a 1,73 euro e in India a 2 euro. «Unendo gli elementi della capacità produttiva in eccesso e del differenziale del costo di lavoro – riflette Antonio Bigatti, che in Kpmg si occupa di auto – diventa evidente come, soprattutto in Europa, ci sia un problema di prospettiva strategica».

Da produttori ad assemblatori

Non c’è, però, soltanto il rimescolamento della capacità produttiva e della forza di assorbimento delle vetture da parte dei continenti, intesi come gigantesche piattaforme in cui le case storiche si accostano, cooperano e si mettono in dura concorrenza con i produttori emergenti. C’è anche l’ultimarsi dell’evoluzione del modo di fare auto che accomuna tutte le case. Un’evoluzione iniziata fra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta. Ogni costruttore ormai è un assemblatore. Negli anni Settanta la deverticalizzazione dell’organismo fordista ha progressivamente portato fuori dal perimetro della fabbrica la produzione di componenti. Il passaggio topico di questa prima fase è stato quando tutti i produttori europei e americani, negli anni Ottanta, hanno venduto le loro acciaierie. La materia prima con cui fabbricare, dentro alla fabbrica, la quasi totalità dei componenti. «Ormai – dice il direttore dell’Osservatorio sull’automotive – i tre quarti di una macchina sono realizzati dalla filiera della componentistica. Il produttore si è definitivamente trasformato in un assemblatore e in un fornitore di servizi: per esempio, dalla manutenzione alla finanza personale per l’acquisto della macchina».

In un contesto segnato dai nuovi equilibri fra le piattaforme continentali e dalla definitiva trasformazione della natura delle case automobilistiche, si pone con forza la questione europea, per cui pare inevitabile un parziale processo di deindustrializzazione. «In Europa – precisa Kalmbach – si concentreranno sempre più le funzioni sofisticate: il disegno dell’auto, l’invenzione tecnologica, la valorizzazione del marchio, perfino il come assemblare i pezzi comprati in tutto il mondo». Non ci sarà una desertificazione produttiva. Un ridimensionamento, sì, potrebbe essere inevitabile. E non potrà non essere doloroso.