Ernesto Ferrero La Stampa 17/9/2010, pagina 38, 17 settembre 2010
Meno male che Carlo c’è - Essendo entrato in editoria nel lontano 1963, ho presto imparato che gli autori - coloro che aumentano, secondo l’etimo latino - è meglio leggerli che frequentarli di persona
Meno male che Carlo c’è - Essendo entrato in editoria nel lontano 1963, ho presto imparato che gli autori - coloro che aumentano, secondo l’etimo latino - è meglio leggerli che frequentarli di persona. Nei libri mettono il meglio di sé; il resto sono scarti di produzione, come nella lavorazione del ferro. Dal vivo appaiono spesso nevrotici, insicuri, narcisisti, invidiosi, aggressivi per frustrazione, facili a cadere in depressione. Carlo Fruttero smentisce clamorosamente questa classificazione superficiale, forse la meschina vendetta tardiva di chi in gioventù si è trovato a gestire autori difficili. Carlo e i suoi libri sono la stessa cosa: il piacere che si ricava dalla frequentazione di entrambi è identico. È l’amico che tutti si augurano di avere. È indispensabile alla nostra wellness mentale e affettiva. Uno pensa a lui e si dispone automaticamente a una sorta di sorriso interiore. Meno male che Carlo c’è. Il bello è che me ne sono accorto abbastanza tardi. Come si sa, Fruttero e il suo inseparabile amico Franco Lucentini sono entrati nella redazione di Einaudi in via Biancamano a metà degli Anni 50. Erano altrettanti pesci fuor d’acqua, ma non se ne sono certo fatti un problema. Non erano politicizzati né ideologizzati, non iscritti al Pci malgrado gli inviti peraltro molto sommessi di Calvino, che presto ne uscirà; non firmavano appelli, non marciavano per la pace, non leggevano e citavano Gramsci e Lukács, non si interrogavano tormentosamente sulle funzioni del cosiddetto intellettuale organico. Niente di tutto ciò. F. & L., disgiunti ma ancora per poco, leggono e consigliano autori non impegnati, quali Borges e Beckett, e l’editore, che con il Pci si diverte a fare il bastian contrario, li pubblica volentieri. Insieme, combinano antologie rimaste leggendarie, come Le meraviglie del possibile, due tomi che sdoganano la fantascienza presso i lettori colti. Alla fine del decennio i due passano da Mondadori a curare una collana di fantascienza che sarebbe diventata mitica anche quella, «Urania», tra lo sbalordimento degli einaudiani, i quali non potevano credere che qualcuno osasse abbandonare il monastero di via Biancamano per una mission commerciale. Quando sono arrivato in casa editrice Carlo non c’era più, ma quasi non si poteva parlare di lui, come in chiesa non si parla di uno spretato. Sentivo dire che era un cinico, un qualunquista, che per quei tempi era il peccato massimo, senza redenzione né perdono. Non osavo fare domande. Ma quale cinico! Quando ho cominciato a frequentarlo ho presto scoperto che il presunto cinico era uno che sapeva vedere le cose senza paraocchi e senza condizionamenti ideologici, con la fulminea, esatta percezione dei grandi satirici. Chiacchierare con lui è divertimento puro, come sa chi lo ha visto da Fabio Fazio. Il seguito della storia è noto: nel 1972, dopo una gestione di sei anni, esce La donna della domenica, libro fondatore del giallo all’italiana. Seguono altri fortunati romanzi, tra i quali il più caro agli autori è anche il più articolato e complesso, A che punto è la notte, anche quello ambientato a Torino, in cui c’è un editore in cui si può riconoscere Einaudi e c’è la megafabbrica come luogo di complicati intrighi. Intanto i due si divertono a scrivere note di costume che poi sono state raccolte in tre volumi, il primo dei quali ha un titolo emblematico, La prevalenza del cretino. Non c’è scemenza che non abbiano infilzato allo spiedo per la nostra delizia e per il nostro ristoro. Sono stati i nostri Zorro, prima di Gramellini: ci hanno vendicato cercando di vincere con la «manutenzione del sorriso» lo scoramento che prendeva anche loro, alle prese con uno sterminato catalogo di scempiaggini, volgarità, banalità. Avendo riletto quei brillanti corsivi, posso assicurare che non è cambiato niente, se non in peggio. Rimasto solo, Fruttero ha continuato a osservare e ascoltare perplesso, e ci ha regalato tre altre perle: il romanzo Donne informate sui fatti, La Creazione, ovvero la filastrocca che racconta la Genesi (teoricamente ai bambini, in realtà a tutti, accompagnata dalle belle tavole di Cristina Làstrego; Gallucci editore) e Mutandine di chiffon, il recente volume in cui ha raccolto scritti autobiografici usciti in varie sedi su committenza, e per questo sottotitolati «Memorie retribuite». Le autobiografie di solito sono da accogliere con diffidenza perché l’autore racconta non quello che lui è, ma quello che vorrebbe essere. Sono un’operazione di marketing personale, una finzione narcisistica in cui l’Io si manifesta in tutto il suo molesto turgore. Per scrivere una vera autobiografia, dice Fruttero, «bisogna avere un’idea statuaria di se stessi o l’ambizione di lasciare una traccia». Figurarsi. Qui, al contrario, mi è sembrato di tornare sul Torino-Milano dei pendolari, con lui che snocciola amabilmente, en amitié, per il puro piacere di raccontare, pezzi della sua vita, aneddoti, ritratti fulminei. Fruttero fa parte di quelle che oggi si chiamano le eccellenze torinesi, come Chiamparino, i gianduiotti, la Reggia di Venaria, il Museo Egizio e il Museo del cinema, lui che pure è l’esatto contrario dell’idea stessa di museo. Ma che sia insomma un pezzo pregiato del tesoro che conserviamo con affettuosa reverenza è fuori di dubbio. Ora, siamo felici e grati che il Comune di Castiglione lo onori e festeggi. Ma avendo una coda di paglia lunga così (abbiamo inventato tutto e ci hanno portato via quasi tutto, la capitale, il cinema, la moda, la radio, la televisione) stiamo attaccati a Carlo con le unghie e con i denti, nella paura che ci portino via anche lui. Per questo vado a festeggiarlo a Castiglione della Pescaia. Per controllare che non ce lo scippino.