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 2010  settembre 17 Venerdì calendario

Meglio la morte in mare che le prigioni della Libia - Per trovare le risposte bisogna venire qui, a Mazara del Vallo, nella casa di un vecchio acciaccato lupo di mare che ne ha viste più che nei romanzi di Salgari

Meglio la morte in mare che le prigioni della Libia - Per trovare le risposte bisogna venire qui, a Mazara del Vallo, nella casa di un vecchio acciaccato lupo di mare che ne ha viste più che nei romanzi di Salgari. Bisogna fare quattro chiacchiere con Vito Quinci, 78 anni, una vita al comando di pescherecci, tanti assalti subiti come quello dell’Ariete, sequestrato sette volte dai tunisini e due dai libici. Nelle carceri di Gheddafi si è fatto quattro mesi, «insieme con i detenuti comuni, a organizzare con l’equipaggio i turni di guardia per guardarsi dalle violenze, a vedere l’inferno con gli occhi». Un’esperienza che gli fa dire qual è la vera legge laggiù, nel Canale di Sicilia, lontano da protocolli internazionali. «Quelli sparano - dice - conoscono solo questa lingua, pistole, cannoncini, mitragliette, e se non obbedisci ne fanno una questione personale. Poco conta se sei in acque internazionali o no: se non ti fermi, sei nei guai. Come è successo all’Ariete, come successe a me trent’anni fa». Erano i primi giorni di maggio del 1978 e navigava con il suo motopesca Scarabeo a Nord di Homs, fra Tripoli e Misurata, quando gli si parò davanti una motovedetta libica a intimargli l’alt. «Erano tempi terribili, pochi mesi prima mi ero già fatto quattro giorni di sequestro, per i comandanti che non si arrendevano subito c’erano cinque anni di galera. Eravamo a cinquanta metri di distanza, io cercai di prendere tempo. Il militare si infuriò, tirò fuori dal taschino una pistola e si mise a sparare tutto il caricatore. Non mi colpì, ero fuori gittata, ma mi arresi subito, ordinai al motorista di seguire la motovedetta e mi accasciai a terra, sapendo che cosa mi avrebbe aspettato». Lo dice due volte: «arrendersi», come in guerra, perché qui «c’è solo la legge del più forte, la legge delle armi, la legge di chi rivendica il mare per sé». Non un episodio, non un incidente fortuito, non un equivoco. Qualcuno ha il grilletto più facile, qualcuno i nervi più scoperti, qualcuno è più arrogante degli altri. Però una cosa è certa, qui tra i pescatori di Mazara: se li incontri sono guai. Adesso come nel Cinquecento, nel Seicento, nel Settecento, fino alle soglie dell’Ottocento. Adesso le carte della fede si sono mescolate: i tunisini sono a bordo dei pescherecci mazaresi e i finanzieri italiani sulle motovedette libiche. Ma la guerra non è finita. Per il pesce, il potere, il controllo delle coste. E ancora una volta per gli uomini, gli immigrati. Nelle celle del carcere dell’Inquisizione di Palermo un pescatore del 1700, Francesco Mannarino, ha lasciato impressa per sempre la sua odissea di adolescente rapito dai maghrebini mentre era in barca con lo zio, fatto schiavo a Biserta, costretto a convertirsi all’Islam. E poi, una volta scappato a casa, di nuovo imprigionato dagli uomini del Sant’Uffizio, come infedele. Infine liberato. Destino comune a migliaia di uomini costretti a cambiare fede per necessità o convenienza anche più volte nella vita, tra abiure e riconciliazioni, al ritmo di catture e di ritorni, in un pastiche religioso di rinnegati, neofiti, convertiti da una parte e dall’altra. Tre secoli dopo, sembra di rivederlo negli occhi di Vito Quinci, quel Mannarino. Sequestrato, come lui. Granello finito in un grande ingranaggio della storia. «Mi portarono a Misurata, la prima notte la feci accovacciato sul molo, guardato a vista da un militare. L’indomani venne il peggio: un tenente della Finanza mi portò in macchina fino a Tripoli, quattro ore di viaggio, mi chiese se io in Libia ci fossi mai andato prima di allora. C’ero stato quattro giorni per il sequestro precedente, ma ero spaventato, confuso, gli dissi di no. Sul libretto di navigazione risultava però quella mia permanenza e la mia bugia lo mandò in bestia. Poche ore, ed ero ammanettato al corrimano di una panca del commissariato di Tripoli, con la barba lunga, sporco, malandato, affamato». Fu gentile il commissario a offrirgli un tè e un panino con frittata prima di spedirlo - con l’accusa di contrabbando di pesce - nel carcere di Homs, «un capannone con ventotto uomini di sette nazionalità diverse. Mi accerchiarono subito, se non fossero intervenuti due marcantoni di pachistani non so cosa sarebbe successo». Per lui la giornata più bella della vita fu l’arrivo in galera del suo equipaggio. «Ci siamo difesi a vicenda, ma io neanche la doccia mi facevo, avevo paura. Se metti piede là dentro, lo capisci perché i pescatori scappano». Finì che l’armatore ingaggiò un avvocato libico, mandò soldi, si diede da fare. Finché Roma sbloccò la situazione: l’equipaggio ottenne gli «arresti domiciliari» nell’ambasciata italiana, prima di essere liberato. «Ma ero stremato e non ne potevo più di andare per mare a rischiare la pelle: nel 1980 andai a pescare fra Togo e Nigeria, per dodici anni. Ora sono qui, a sentire ogni tanto in porto i motori dello Scarabeo. Ha cambiato nome, si chiama Chilosse, ma io lo riconosco a orecchio».