Enrico Mannucci, Sette 16/9/2010, 16 settembre 2010
EDOARDO AGNELLI. DECENNALE DI UN SUICIDIO PRESUNTO
Un babbo e il bambino in viaggio. Su due sedili, accanto. Il genitore porge al figliolo l’acqua nel bicchiere di carta. Un’immagine normale, domestica. La vecchia foto bianco e nero che tutti potrebbero conservare. No, non tutti: pochissimi, forse nessuno. Perché siamo negli anni sessanta, siamo in aereo e l’aereo è un jet privato, un executive come si chiamavano. In Italia, allora, chi se lo poteva permettere? L’Avvocato, quello con la A maiuscola, Gianni Agnelli. Infatti è lui nelle vesti di papà a dissetare il figlio Edoardo, che ha un’aria a metà grata, a metà stupefatta e spaurita.
La foto non è più banale. Apre spiragli su scenari familiari che si aggroviglieranno micidialmente negli anni. Offre i fili per indovinare le più oscure dinamiche psicologiche. L’immagine arriva a metà di Edoardo Agnelli - L’ultimo volo, un numero speciale di La storia siamo noi - va in onda giovedì prossimo alle 23,30 su Raidue, Sette l’ha visionato in anteprima - che Giovanni Minoli ha curato per il decennale della morte di un ragazzo che ormai non era più un ragazzo, dell’erede di una dinastia industriale che non aveva trovato alcun ruolo nell’impero, di un suicida giù da un viadotto sulla Stura che alcuni vorrebbero, invece, assassinato.
Perché quella fine non è lineare, induce alle dietrologie. Minoli - «Circostanze poco chiare non convincono sul suicidio» - dà conto di tutte le ipotesi: quelle che risalgono a beghe familiari come quelle che tirano in ballo la geopolitica planetaria. Ma, accanto, fa anche il ritratto "di un uomo sensibile": la storia, gli affetti, le debolezze.
IL PIGIAMA SOTTO LA GIACCA - Il decennale cade il 15 novembre prossimo. Quel giorno, nel 2000, Edoardo esce di casa - villa Bona, collina torinese, poco lontano da villa Frescot, la dimora dell’Avvocato - verso le sette e venti, giacca di velluto e sotto, ancora, la giacca del pigiama. Avrebbe la scorta ma prende la sua Croma e si avvia da solo («Era abilissimo a scappare», dice nel filmato la cugina Tiziana Nasi). Poi imbocca la Torino-Savona, sorte a un casello e rientra subito, rifà il percorso che più o meno - stando ai tabulati della Società Autostrade - ha coperto regolarmente nei tre giorni precedenti.
Si ferma sul viadotto al chilometro 44,800, territorio di Fossano, frazione Boschetti. Il viadotto è lungo e altissimo. Scrive Giorgio Bocca che quei viadotti "non sono ponti ma alte vie di cemento, quasi delle portaerei, fra la fredda pianura piemontese e il mare, e anche, per quelli stanchi della vita, fra la sofferenza senza fine e la morte liberatrice". Il corpo di Edoardo viene ritrovato 73 metri più in basso. Lo vedrà lì anche il padre, avvertito personalmente dal questore di Torino, Nicola Cavaliere, e lungo il tragitto tenacemente e disperatamente aggrappato all’illusione dell’incidente, della caduta fortuita.
IL GOLPE BIANCONERO - Nel ritratto della trasmissione, al primo posto fra le passioni figura la Juventus. Anche perché non è una spensierata fede ludico-sportiva ma ennesimo terreno di sotterranei conflitti, e neppure i meno importanti. Uno dei problemi più evidenti - al limite della banalità - del delfino che non fu mai era appunto la sofferenza per non avere la fiducia dell’Avvocato. Lui tenuto fuori dai centri direzionali dell’impero mentre Gianni, a 23 anni, era già diventato vicepresidente della Fiat. Dice Lupo Rattazzi: «Il padre era una persona molto dura e aveva certe pretese verso il figlio maschio che lui non riusciva a soddisfare».
Marco Bernardini, uno dei non pochi giornalisti che ebbe momenti di grande confidenza con Edoardo, ricorda invece come si lamentasse perché Gianni tornava in elicottero a Torino, scendeva e abbracciava il cane prima di lui: «Un’altra volta arrivò una telefonata alle cinque del pomeriggio. Avvisava che l’Avvocato sarebbe passato a prendere Edoardo poco più tardi per portarlo allo stadio dove la Juve giocava una partita di Coppa dei Campioni. La mattina dopo il ragazzo si svegliò sul letto, completamente vestito e con una sciarpa bianconera al collo. Nessuno era venuto a prenderlo».
In altri casi, Edoardo cerca di bruciare sul tempo queste vane attese. Se non gli danno un ruolo in Fiat magari può conquistarselo nella Juve. Il 28 aprile 1986 va in panchina accanto a Trapattoni, l’allenatore, il Trap. È una sorpresa, all’uscita i giornalisti gliene chiedono conto. E lui rilascia un’intervista "correttissima", la "erre" debitamente arrotata, un orgoglio represso che ribolle fuori: «Nessuna scaramanzia. Rafforzare il morale dei giocatori è importante».
Viene chiesto conto a papà dell’imprevista apparizione. E lui, paternalista al cubo, svicola con un comprensivo sorriso: «Non ne sapevo nulla. Nessun permesso. No, è stata una sua scelta». Soprattutto, Edoardo sfiorerà il golpe bianconero con un’intervista a Bernardini in cui dichiara scaduto il tempo di Boniperti. Le reazioni che Minoli ricostruisce valgono poco meno che una guerra nucleare. Interviene l’Avvocato da oltreoceano, intervengono quelli che - nella trasmissione - vengono spesso definiti i "i suoi generali", Grande Stevens e Chiusano.
Telegrammi, comunicati ufficiali: Edoardo viene smentito dalla a alla zeta. Dimostra anche coraggio perché vorrebbero dicesse che il giornalista ha travisato tutto e lui, invece, conferma la correttezza dell’articolo.
UN GRILLO PARLANTE ALLA FIAT - Gli attriti, i conflitti con l’establishment di casa Fiat sono innumerevoli, aspri, probabilmente sommersi in tanti casi. Lui scrive al padre indirizzando al "signor presidente della Fiat" per "ricordarle che l’azienda deve produrre automobili, non incentivare la corruzione". In realtà, poi, neanche la semplice produzione di auto soddisferà gli scenari immaginati dall’erede impaziente e già spodestato. Ragiona su sbocchi industriali alternativi.
Quando Giovanni Alberto Agnelli, figlio di Umberto fratello dell’Avvocato, viene indicato per la successione alla guida della Fiat, gli scrive una lettera di fuoco. Giovannino - che morirà tre anni prima di lui per un tumore - gli risponde. E finisce tutto in un patto in cui si giurarono eterna solidarietà. Pino Buongiorno osserva: «Giovannino aveva la testa al business, Edoardo era un filosofo».
Chiosa Bernardini: «Sono convinto che se Giovannino fosse vivo, sarebbe vivo anche Edoardo». Il trauma si ripete - stavolta con un’intervista televisiva - quando la scelta cade su John Elkann. Il figlio di Gianni è sempre più lontano dalla fabbrica, dalla holding, dagli infiniti affari di famiglia. I tempi che precedono il suicidio sono segnati da burrascose trattative per fargli rinunciare ai diritti ereditari in cambio di una sostanziosissima buonuscita. Qui si innestano i sospetti. Giuseppe Puppo, un giornalista, li ha depositati in un libro (Ottanta metri di mistero; Koinè nuove edizioni): «Ci sono almeno venti elementi concreti che si oppongono alla tesi del suicidio».
Perché la scorta non l’aveva seguito? Perché non venne esaminata la documentazione delle telecamere che controllavano villa Sole? Perché le indagini vennero sbrigate con una rapidità del tutto eccezionale? Perché si decise di non effettuare un’autopsia? E altri notano come fosse diventato un "personaggio pericolosissimo, un grillo parlante che disturbava assai l’universo Fiat". Un anno dopo la morte la teoria del complotto criminale è stata rilanciata con un servizio della Tv iraniana.
Stavolta con un retroscena politico-religioso: Edoardo viene celebrato come un martire musulmano ucciso dagli ebrei Elkann. «Le religioni gli interessavano molto», dice Gelasio Gaetani Lovatelli, un amico di Edoardo, uno di quelli cui telefonò - senza annunciare nulla, comunque - il giorno prima della morte. E nella biografia si incontrano studi che spaziano all’islamismo all’induismo, fascinazioni per guru indiani, ribadito interesse al misticismo orientale. Osserva Lupo Rattazzi: «Abbracciare altre religioni era un aspetto del suo carattere che si ribellava verso le cose costituite».
Interviene, però, Minoli: «La tesi è suggestiva ma assolutamente priva di fondamento. Nessuno degli amici di Edoardo conferma l’assunto di partenza, cioè che lui fosse un musulmano praticante». Senza spaziare fino alle crisi mediorientali, un elemento sconcertante, però, c’è. E a due passi dal viadotto sullo Stura. Luigi Asteggiano è un pastore, di mucche e piemontesissimo. Davanti alla telecamera dichiara di aver visto il cadavere schiacciato sotto il ponte poco prima di dare da mangiare alle bestie.
Questo è un appuntamento fisso, alle otto di mattina, massimo le otto e mezzo. Come si concilia questa testimonianza con l’orario d’ingresso in autostrada registrato dal telepass alle 8,59? E con l’affermazione dell’Avvocato che, a caldo, dice di aver ricevuto una telefonata da Edoardo poco prima delle 9? Se Edoardo era già morto alle 8,59 chi ha guidato la macchina su e giù per la Torino-Savona? La risposta non c’è. C’è un complesso di pareri e di perizie scientifiche che accreditano il gesto solitario.
Luciano Garofano, capo del Ris di Parma fino all’anno scorso, valuta il punto di caduta - "sulla ortogonale rispetto al guard-rail del viadotto" - assolutamente compatibile con la caduta spontanea. È vero, poi, che è strano come nessuno fra chi percorreva quella strada abbia notato una persona che si arrampicava sul parapetto e si lanciava nel vuoto. Ma ancora più strano sarebbe immaginare che nessuno abbia visto diverse persone che ne buttavano un’altra - presumibilmente niente affatto consenziente - di sotto.
A favore della tesi del suicidio c’è poi, potente, la consapevolezza dell’instabilità psicologica e dei problemi - «L’uso per quanto limitato e saltuario di sostanze stupefacenti» - del giovane Agnelli. Dice cruda Tiziana Nasi: «A parte il fatto che si è parlato immediatamente di suicidio... Poi cosa è meglio? Almeno lì ha seguito il suo istinto, ha ammesso di non avere la forza di vivere. Come la trovi la forza di buttarti giù da un viadotto? Ci deve essere uno stato di esaltazione, o creato chimicamente dal tuo cervello, o, dico io, più facilmente creato da qualche sostanza chimica esterna».
E Lupo Rattazzi è ancora più duro: «Sarei felice mi dicessero che l’hanno ucciso, vorrebbe dire che non era così disperato». C’è un punto in cui non si può andare oltre. Minoli lo affronta sapendo che al fondo più vero non si arriverà mai: «Se i dati medico-legali confermano la tesi del suicidio, resta la domanda: perché?»