Giuseppe Sansonna, il manifesto 15/9/2010, 15 settembre 2010
GIOCARE COL FUOCO A ZEMANLANDIA
«Bisogna avere coraggio. Imparare a scherzare con fuoco». Carte in mano e Marlboro in bocca, Zeman distilla roco estratti dal suo vangelo. Applicabili alle carte, al calcio, alla vita. Il pulpito è un tavolino, incastrato all’ingresso dell’Hotel Meridiano di Termoli. Attorniato da Pavone, Altamura e Cangelosi, ovvero diesse, accompagnatore e allenatore in seconda. Amici di una vita, incatenati ad una scala quaranta che dura dal 22 agosto, data d’inizio dell’esilio molisano di Zemanlandia. Tutta colpa del concerto di Eros Ramazzotti. «Assassino. Mi ha distrutto prato di Zaccheria», ironizza amaro il boemo. Mentre a Foggia rifanno il manto erboso, i satanelli sono di casa all’Aragona, stadio di Vasto, riviera adriatica chietina. Alloggiano nella vicina Termoli, godendosi tutta la malinconia dell’estate morente: cielo plumbeo, ombrelloni piegati dal maestrale, mare limaccioso e mugghiante. Zeman mescola le carte con piglio da croupier e lancia uno sguardo scettico al prematuro scenario autunnale. Giocano a carte, come vent’anni fa, ai tempi della prima Zemanlandia. Si dicono tutto senza dirsi niente. Esorcizzano la noia e i fantasmi: dopo un folgorante 3-0 inflitto alla Cavese, i ragazzi del boemo hanno incassato otto gol in due partite, rimediando due sconfitte pirotecniche con Lucchese e Lanciano. Grande gioco ed errori marchiani, dovuti alla faticosa assimilazione degli schemi. Il solito Zeman, mormorano i detrattori. Il solito Zeman, esultano i devoti.
L’uomo di Praga si prende il suo tempo, come sempre. Intreccia e cala tris e scale, invoca i jolly e si abbandona alle derive del suo monologo interiore. Schegge di memoria, frammenti straniati di un discorso amoroso: «Chissà se mi arriva carta giusta, chissà chi sa chi sei, chissà che sarai, chissà se va, Vava, Didi, Pelè, Garrincha Zagalo. Come prima, più di prima t’amerò». Poi si infila le cuffie e ascolta la radiocronaca di Cagliari-Roma. Scuote la testa: «Perdono 5-1. Espulso Burdisso grande, entrato Burdisso piccolo». Nel frattempo i giocatori sciabattano annoiati tra la hall e le stanze. Nati tra la fine degli anni ottanta e l’inizio dei novanta, snobbano l’alienazione vintage delle carte, preferendo l’alienazione solipsistica da Web 2.0. Zeman li guarda perplesso, convinto com’è che senza le carte in mano non si diventa squadra. Il gruppo si riunisce a cena, davanti a un profluvio di linguine ai frutti di mare e orate termolesi. Poi ognuno si ritira nelle sue stanze. A smaltire in solitudine la tensione della vigilia.
Il mattino dopo Don Pasquale Casillo, il patron vesuviano, irrompe al Meridiano. Completo nero, camicia bianca, con iniziali ricamate, sorriso che ammalia e atterrisce. Sembra sfuggito a un set di Scorsese. Apostrofa Zeman con strali zuccherosi «Mi dai le stesse emozioni di allora. L’illusione di poter vincere sempre. Anche se poi torniamo a casa con cinque gol sul groppone». Zeman socchiude gli occhi da soriano e abbozza un sorriso impercettibile. Casillo si dedica allora a Lorenzo Insigne, la formica atomica di Frattamaggiore: «Tu mi ricordi Ciccio Baiano. Quando Sacchi lo convocò in nazionale andai a prendere suo padre, barbiere di Soccavo, con il mio aereo personale. Lo portai a Genova, a vedere il figlio. A fine partita Ciccio venne da me, con la maglietta azzurra in mano, fradicia di sudore. Mi disse:’ Tenete presidente, questa è per vostro figlio Gennarino’. Mi vennero le lacrime agli occhi. Mi slacciai il mio Rolex d’oro e glielo regalai. Un orologio da trenta milioni. Altri tempi».
Ma il presente incombe e ha la ruvida consistenza del Foligno. Zeman e i suoi fanno il loro ingresso nello stadio di Vasto. Spettralmente vuoto, a causa della squalifica del campo. Uno scenario che rievoca l’incubo ricorrente di Zeman, lo stadio desertificato dalle pay tv. I dirigenti della Triestina, in serie B, hanno rimediato addobbando le tribune con le gigantografie degli spettatori. Davanti al pubblico ridotto a trompe l’oeil inorganico, Zeman replica con un aneddoto kafkiano. «Idea vecchia. Anni fa, quando allenavo Roma, mi invitarono a vedere partita a Blsany, villaggio cecoslovacco. In un paesino di ottocento abitanti, avevano costruito stadio da duemilacinquecento posti. Sempre vuoto. Molto triste. Allora hanno dipinto spettatori con vernice. Ancora più triste».
A lenire la tristezza boema, sono arrivati trecento ultras da Foggia. Assiepati fuori dall’Aragona, cantano per una partita che non vedono. Conferiscono una sfumatura spettrale ancora più sottile agli spalti disabitati. Ribadiscono, in melodia, che non si piegheranno alla tessera del tifoso. Sulla panchina umbra siede un imbolsito Totò Matrecano, storico difensore del Foggia zemaniano. Debuttò in serie A a San Siro, contro l’Inter. Era il 1991. Zeman lo piazzò nei pressi di Jurgen Klinsmann. Ribattezzato pantegana bionda dalla Gialappa’s Band, il tedesco rimase a secco. Merito del ventunenne Totò. Oggi, da allenatore, gioca con un quattro tre tre di stampo boemo. Zeman gli ha dedicato parole agrodolci, nel prepartita: «Non pensavo sarebbe diventato allenatore. Non ne aveva la testa, da ragazzo. Si vede che è cresciuto». Comincia il match. I rossoneri sciamano sul prato verde, come cavallette da piaga biblica. L’ivoriano Moussa Kone verticalizza chirurgicamente su Marco Sau. L’accigliato attaccante nuorese infila la porta in velocità. Si susseguono cambi di fronte all’ultimo respiro: il Foligno fallisce un rigore artigliato da Ivanov, acrobatico portiere bulgaro, poi pareggia prima dell’intervallo.
Ripresa: il Foggia passa in vantaggio su percussione di Karim Laribi, faccia tunisina e parlata meneghina. Esulta mettendosi la mano tesa sulla fronte, come gli Apaches quando guardano l’orizzonte. Ma poi comincia l’incubo. In un quarto d’ora il Foligno taglia la difesa foggiana tre volte, come burro fuso. Nessuno sembra volerci mettere il piedino, tranne Iozzia, che sbaglia il tempo e viene espulso per somma di ammonizioni. Al settantesimo il Foggia è in dieci uomini e perde 4-2. Più che il gioco collettivo, in questo frangente emerge la mostruosa preparazione atletica. Tomi, napoletano di San Giorgio a Cremano, ha l’occhio ceruleo e il naso aquilino. Maniaco dell’hip hop, parte al galoppo dalle retrovie, arriva al limite dell’area e fulmina il portiere umbro con un siluro. Imitato da Laribi un istante dopo. Ultimi secondi: Kone, lanciato da Sau, fallisce stremato il colpo del ko. Il Foligno, sull’immediato ribaltamento di fronte, stampa il suo match point sull’incrocio dei pali di Ivanov. Fischio finale.
In tribuna stampa si invoca la necessità di un presidio cardiologico. Zeman chiosa: «Abbiamo scherzato con fuoco. Ho visto fiammate. Sono contento. È mancata concentrazione. Metterci piede, entrare nei tempi giusti». Sipario. Rompete le righe, l’esilio è finito, si torna a Foggia. Zeman lancia un ultimo sguardo alla stadio vuoto e pensa a quando questo bendiddio lo vedranno in venticinquemila, allo Zaccheria.