Roberto Villa, Corriere.it 16/9/2010, 16 settembre 2010
MEDICINA SPOSRTIVA. CHI DECIDE SE RIENTRA KAKA
«Muoio dalla voglia di tornare a giocare» ha dichiarato Kakà. I tifosi del Real, da parte loro, non aspettano altro. Anche Mourinho, il nuovo allenatore del Real Madrid,, probabilmente, vuole verificare il prima possibile come l’asso brasiliano si possa inserire negli schemi di gioco dei nuovi Galacticos. Ma come si stabilisce (almeno in teoria) quando è il momento di rientrare in campo? Meglio bruciare le tappe come ha fatto per esempio Valentino Rossi dopo la frattura di tibia e perone, o procedere con un po’ di prudenza in più? Un gruppo di ricercatori canadesi ha analizzato e razionalizzato i fattori che in questi casi determinano la scelta dei medici sportivi.
TRE FASI - «Gli studiosi hanno scomposto in tre step il processo decisionale adottato dagli esperti» dice Piero Volpi, responsabile dell’Unità operativa di Ortopedia del ginocchio e traumatologia dello sport presso l’Istituto clinico Humanitas di Milano, «per fornire uno strumento utile anche a chi segue pazienti che, anche senza essere campioni, desiderano tornare a praticare la loro attività sportiva». Il primo passo consiste ovviamente nella valutazione clinica delle condizioni di salute dell’atleta. «Questa fase è solo nelle mani del medico» spiega Herbert Schoenhuber, responsabile del Centro di traumatologia dello sport e chirurgia artroscopica presso l’Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano, «e dipende dai tempi biologici indispensabili ai tessuti per guarire. Perciò la sua durata è incomprimibile, uguale per tutti». Gli autori dell’articolo pubblicato sul Clinical Journal of Sport Medicine aggiungono a questi criteri preliminari, oltre ai risultati di visite, esami e test, anche quanto lo sportivo, dal punto di vista psicologico, si sente pronto a riprendere. «È un aspetto che non va mai trascurato» sottolinea Volpi, che ha nella sua storia personale un passato da calciatore con più di 400 partite da professionista, un’esperienza preziosissima per capire le dinamiche che si muovono nella mente dei calciatori e di chi li circonda. Accertate le condizioni dell’atleta, va poi messo in conto il rischio che il giocatore si faccia male di nuovo. «Un’evenienza quattro volte più frequente dopo un primo infortunio» commenta Ian Shrier, del Jewish General Hospital, di Montreal, in Canada, che ha coordinato la ricerca.
RISCHI E BENEFICI - Nel soppesare rischi e benefici occorre quindi prendere in considerazione il tipo di sport, il ruolo svolto dal singolo atleta, il grado di competitività richiesto, se si tratta cioè di un campione olimpico o di un dilettante che vuole tornare alla partitella a calcetto con gli amici. Infine, a orientare la scelta in un senso o nell’altro intervengono altri fattori: gli interessi economici delle grandi società di calcio, per esempio, l’urgenza per l’allenatore di avere il giocatore in campo, la fine del campionato ormai alle porte o al contrario l’imminenza di un appuntamento importante come un’Olimpiade. «Mi è capitato di lasciar gareggiare sciatori con piccole lesioni legamentose» confessa Schoenhuber, «perché potessero portarsi a casa la medaglia per cui si allenavano da anni». Una decisione che talvolta può compromettere l’attività successiva, come qualcuno sospetta sia capitato con Kakà, con la nazionale brasiliana durante i Mondiali in Sudafrica. Chi se ne prende la responsabilità? «La decisione deve essere presa insieme dal medico, l’allenatore, il preparatore atletico e soprattutto lo sportivo stesso» sostiene Volpi. «E per questo è fondamentale che ci sia un clima di grande stima e fiducia reciproca» aggiunge Schoenhuber.