Alberto Granese, Corriere della Sera 16/09/2010, 16 settembre 2010
VOLGARITA’ «NEOLINGUA» DEI BARBARI
La nostra travagliata e contraddittoria contemporaneità si caratterizza per un singolare e inquietante parallelismo. Premettiamo che una «cultura dell’incultura» prende piede sempre più smaccatamente e celebra i suoi fasti con il trionfo dell’immagine quale forma eponima della comunicazione non verbale anche se la lingua, spesso mortificata, impoverita, snaturata, squallidamente «semplificata», non appare disposta, malgrado tutto, a rinunciare ai propri diritti e alle proprie prerogative.
Senza voler negare il valore dell’immagine, a cui molto debbono le culture di tutti i tempi e di tutti i luoghi (pittura, scultura, cinema, teatro, architettura, grafica sono in gran parte immagine — e per converso l’immagine è linguaggio) veniamo all’inquietante parallelismo. Aristotele definiva l’uomo in due modi: come «l’animale che ha la parola» e come «l’animale politico». A quel tempo si consideravano barbari ( bárbaroi) coloro, in generale gli stranieri, che non sapevano parlare, o parlavano male, quella che era considerata la lingua per eccellenza: il greco. Non c’è da stupirsi, a distanza di duemila e quattrocento anni, che all’imbarbarimento della politica, nei suoi usi linguistici, ma non solo, faccia riscontro l’imbarbarimento del linguaggio, senza che si possa affermare con certezza cosa sia causa e cosa effetto. A tale duplice forma di imbarbarimento si riferiva Claudio Magris, in un articolo scritto da par suo e recentemente pubblicato come editoriale del «Corriere della Sera». Non c’è dubbio che l’imbarbarimento «turpiloquente» del linguaggio, spesso declinato nella forma dell’insulto, sia una componente non secondaria dell’imbarbarimento del confronto e dello scontro politico.
Nel trattare di questo ci si deve ovviamente guardare da moralismi, generalizzazioni, esagerazioni e, per quanto riguarda lo specifico della lingua, da preziosismi e schifiltosità puristiche (pensiamo a un libro pubblicato da Edmondo De Amicis più di un secolo fa, quanto si voglia «superato», ma ancor oggi utile da leggersi, intitolato L’idioma gentil, sonante e puro — locuzione tratta da un sonetto di Vittorio Alfieri e posta in epigrafe al volume). Come tutte le cose di questo mondo la lingua evolve e muta, il che non vuol dire necessariamente che si perverte o si corrompe. Essa ha una storia, e la storia è un tapis roulant sul quale ci si deve muovere, con adeguata andatura, se si vogliono evitare rovinose cadute e goffi capitomboli. A proposto di cambiamenti si deve però ricordare che la lingua latina subì nei secoli mutazioni vistose e che tuttavia il latino «per eccellenza» non ha mai cessato di esser considerato quello di Cicerone, «fiorito» nell’età di Cesare.
Alcune cose devono essere chiarite. È fuor di luogo, almeno fino a un certo punto ( est modus in rebus!) piangere la morte del congiuntivo, lamentare l’obsolescenza di vocaboli ed espressioni idiomatiche che hanno «servito» con onore, mentre si diffonde a macchia d’olio una neolingua, per dirla con il George Orwell della «distopia» («utopia negativa») 1984, magari per uscire di scena, in un breve volger di tempo, logorata dal suo stesso effimero «successo». Sarebbe sbagliato e ingeneroso censurare con professorale severità un turpiloquio talvolta sapido, efficace, «simpatico» (un tempo lo si sarebbe definito «goliardico») come quello a cui indulgono i giovani... e non loro soltanto.
Altra cosa dal turpiloquio è la volgarità. I due termini non possono essere disinvoltamente assimilati. Negli immortali Canti di Catullo ricorrono elementi di turpiloquio che nulla tolgono alla grandezza di quelle composizioni poetiche e si potrebbero fare molti altri esempi di quelli che un valente studioso di filologia classica e romantica — Alberto del Monte — definiva «lazzi scurrili» incorporati o incastonati in opere di grande valore letterario. Volgarità è il rifiuto della disciplina linguistica, l’arroganza della pseudocreatività, la mancanza di consapevolezza, di misura, di accuratezza, di rigore, di senso dell’opportunità e di buon gusto; l’incapacità di distinguere fra l’innovazione e il gratuito stravolgimento delle regole, con la produzione ripetitiva — significativo paradosso — di nuovi luoghi comuni e di stereotipi. Ciò in un tempo in cui una letteratura talvolta di qualità infima invade il mercato e trova collocazione negli «espositori» dei supermarket, degli aeroporti e degli uffici postali. Un tempo in cui (viene fatto di pensare al Borghese gentiluomo di Molière) tutti quelli che scrivono, magari con l’assistenza di un ghost writer, si considerano, si affermano e si «vendono» come scrittori. Su questo e ovviamente non solo su questo, fa leva e assegnamento, in modo più o meno diretto e intenzionale, un ceto politico i cui comportamenti inducono a confondere il consenso cieco e passivo con la consapevole adesione a programmi politici e di governo, alimentando un populismo che fa riflettere, a malincuore e con amarezza, sulla originaria connessione etimologica fra il «popolare» e il «volgare». A proposito di innovazione di tradizione, Nietzsche, non ancora trentenne, ebbe a scrivere, nella seconda metà del secolo XIX, sui danni di uno storicismo tradizionalistico e conservatore che inibisce la creatività innovativa, dimostrandosi però ben consapevole che l’autentica creatività ha come presupposto (nella musica, nella danza classica, nelle arti figurative, nell’architettura etc.) la disciplina. Non dovrebbe sfuggire che i «danni della storia» erano segnalati da un grande filologo, oltre che filosofo, quale appunto era Nietzsche, frequentatore assiduo e acutissimo interprete dei testi classici. Come concludere? Due citazioni di «latinetto» elementare possono essere proposte. La prima: ex ore tuo te iudicabo («ti giudicherò da come parli — e scrivi»). La seconda, che parafrasa una massima del grande filosofo Spinoza, coniata a proposito della verità: la lingua è index sui, si mostra «per quello che è» e, in un certo senso, è giudice di sé stessa.
Ci fosse dato di parlare e scrivere in una lingua che, guardandosi allo specchio, non dovesse vergognarsi di sé stessa e che non dovesse muovere a sé stessa l’umiliante addebito di essere (ove si riconoscesse volgare) causa ed effetto, fattore concomitante, comunque, delle altre forme di volgarità generate dalla cultura dell’incultura, nella cui dimensione e nel cui contesto i comportamenti dei decision makers politici, non apparissero viziati, come talvolta, e fin troppo visibilmente, accade, da altre forme, più inquietanti perché più sostanziali e dannose, di volgarità.
Alberto Granese