Giuseppe Berta, Il Sole 24 Ore 16/9/2010, 16 settembre 2010
ENGELS? VIA A 50 ANNI VERSO LA RIVOLUZIONE
Può un operatore economico, un manager o un imprenditore sottrarsi alla presa più stretta dei meccanismi del capitalismo in nome dei propri princìpi e dei propri ideali? Questo interrogativo si è riaffacciato infinite volte nella discussione sugli incerti confini fra le procedure del capitalismo, la responsabilità sociale e i valori etici. Le risposte sono state in genere affidate a comportamenti particolari legati a individualità straordinarie che hanno cercato di far valere la propria autonomia, intervenendo su alcuni aspetti dell’organizzazione economica dell’impresa per mutarla. I nomi che si possono fare sono quelli che ricordano tutti, dallo scozzese Robert Owen al tempo della rivoluzione industriale ad Adriano Olivetti in Italia, che tentò d’imporre sull’impresa una matrice comunitaria, al tedesco Walther Rathenau, che attraverso la pianificazione economica si adoperò per dotare il capitalismo di un’anima, come scrisse Robert Musil, trasfigurando il suo personaggio nell’Uomo senza qualità.
Ben più numerose sono invece le figure che, magari ostili al capitalismo al punto d’invocarne il superamento, ne accettarono in fondo i dettami e vi uniformarono la loro condotta quando si trovarono ad agire all’interno dell’organizzazione economica esistente. Come Friedrich Engels, ricordato da tutti per aver fondato il marxismo insieme con l’amico di una vita, ma le cui fortune di uomo pratico furono legate alla sua attività nel settore cotoniero inglese, durante l’età vittoriana. I più hanno in fondo giudicato l’attività professionale di Engels come un particolare poco rilevante all’interno di una biografia, condivisa con Marx, all’insegna della costruzione dell’edificio teorico del "socialismo scientifico". Eppure Engels fu manager e imprenditore a Manchester per quasi vent’anni, quelli centrali della propria vita, dal 1850 al 1869. Alla responsabilità di uomo d’impresa Engels giunse a trent’anni e potè lasciarla soltanto alla soglia dei cinquanta, quando aveva accumulato un capitale sufficiente per potersi dedicare interamente, al pari di Marx, agli studi e all’agitazione politica, abbandonando Manchester per Londra. È merito della nuova biografia che di lui ha scritto un giovane storico inglese, eletto al parlamento la primavera scorsa per il Labour Party, Tristram Hunt, di soffermarsi sull’operosissimo ventennio trascorso da Engels tra le ciminiere del Lancashire, per restituirci un profilo diverso e originale del secondo padre del marxismo. In questo senso, il titolo del libro - La vita rivoluzionaria di Friedrich Engels, Isbn Edizioni - non rende del tutto giustizia alla storia che Hunt racconta, perché Engels non visse sempre da rivoluzionario. Anzi, per un bel tratto, visse come un distinto borghese della comunità degli affari di Manchester, frequentando le associazioni economiche e i circoli dell’élite, fino a mascherarsi perfettamente con gli altri "signori del cotone" che condividevano i suoi impegni professionali.
Il suo lato rivoluzionario era ben dissimulato sotto la levigata superficie della mondanità cui la condizione di Engels lo costringeva. Doveva così celare le sue idee, come la sua convivenza con le sorelle Burns (prima Mary, poi Lizzie), due donne che appartenevano alla fascia più povera del proletariato, formata dagli immigrati irlandesi. Nessuno avrebbe mai ravvisato sotto le spoglie di Mr Engels le sue idee rivoluzionarie; certo non coloro che condividevano con lui, oltre al tempo di lavoro, anche gli agi sociali. Del resto, l’uomo d’affari tedesco, identico a tanti gentlemen del suo ambiente, arrivò a farsi prendere dalla passione per la caccia alla volpe (manteneva un cavallo solo per questo scopo).
Ma come si lavorava presso la ditta Ermen & Engels, in cui Friedrich rappresentava gli interessi di famiglia? Nella sostanza, non diversamente che presso le altre fabbriche tessili. Hunt ci dice che i livelli salariali erano forse un po’ sopra la media, ma le ore erano quelle - ancora alquanto lunghe - che erano state fissate dalle leggi sull’industria degli anni Quaranta, dunque 60 alla settimana (dieci e mezza per cinque giorni lavorativi, col pomeriggio libero al sabato, da cui l’espressione "sabato inglese"). Con i collaboratori, con gli impiegati alle sue dipendenze, Engels era un superiore educato ed estremamente corretto, fatta salva, naturalmente, la distanza invalicabile che li separava. Durante i periodi di crisi del settore (i cui cicli ricorrevano con frequenza), per un po’ Engels sperò che si destasse una coscienza rivoluzionaria tra gli operai, ma fu deluso: man mano che la loro condizione migliorava, aumentava il loro spirito di adattamento e, anzi, si spegneva il radicalismo politico precedente.
Alla fine, Engels si liberò del fardello del suo ruolo imprenditoriale, vendendo le sue quote al socio Ermen. Aveva così fretta di disfarsene, che non negoziò bene la sua uscita dagli affari. Si assicurò un capitale non elevato (equivalente a qualche milione di sterline d’oggi), ma sufficiente a garantire a sé e alla sconclusionata famiglia Marx un tenore di vita decente. Nella sua cantina non sarebbe mai mancata - come testimonia il suo asse ereditario alla scomparsa, nel 1895 - una scorta abbondante di champagne e di bordeaux, indispensabile ai suoi gusti di bon vivant ottocentesco. Marx ed Engels erano rivoluzionari, ma erano anche uomini del loro tempo, con i modi e gli stili di vita tipici della società vittoriana, la loro visione della trasformazione sociale coesisteva dunque con idee e pregiudizi che oggi suonerebbero inaccettabili. Erano soprattutto campioni di realismo politico: critici sempre del socialismo utopista e dei progetti comunitari alla Owen, pensavano che al mondo si dovesse stare con le regole vigenti, finché non si fosse avuta la forza di sovvertirle. E anche col capitalismo si doveva convivere, fino a quando non si fosse affacciato un nuovo ordinamento dell’economia e del potere.