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 2010  settembre 16 Giovedì calendario

QUELLI CHE... MAI MOLLARE L’AZIENDA

Alessandro Profumo si è portato avanti, e in più occasioni ha ripetuto che lui si farà da parte al compimento del sessantesimo anno d’età, il 17 febbraio 2017. Ma il manager non è l’imprenditore e la finanza non è l’impresa. In giro per il mondo la tendenza più diffusa è quella opposta, con migliaia di imprenditori che in sella restano ben oltre l’età della pensione. Qualche giorno fa, l’e-mail di uno di loro è finita sulla scrivania dell’eclettico finanziere inglese Luke Johnson, che quando ha scoperto che l’imprenditore in questione di anni ne aveva 95 ha deciso di dedicare al tema la sua rubrica settimanale sul Financial Times. Motivo? «Ho visto in lui un messaggio intrigante, il tipico profilo di un uomo d’impresa ancora al centro della sua missione, incurante dell’età».

Incurante delle sue 95 primavere era anche John Kluge, il magnate della televisione americana che si è spento una settimana fa; l’anno scorso Forbes gli ha attribuito un patrimonio di sei miliardi e mezzo, e spesso gli si sentiva dire che «non mi sento veramente bene se non sto correndo qualche rischio». Ragion per cui, teorizza Johnson, gli imprenditori altro non sono che «bestie nervose che per sentirsi vive hanno bisogno di stress e sfide continue». E di rischio in rischio, «può succedere che gli uomini di lungo corso finiscono per sentirsi immortali». Ma alla fine, la deriva dell’identificazione imprenditore-impresa può considerarsi patologica? Il punto è questo, ma qui il columnist del Financial Times non si sbilancia. Perché la sindrome di fatto risulta strutturale, e ogni caso fa storia a sé. Ad esempio, è difficile pensare di avere di fronte un uomo malato d’impresa quando si guarda il volto abbronzato di Alberto Alessi, classe 1946, che dal suo studio a due passi dal Canton Ticino si dice pronto a «venire in azienda fino all’ultimo giorno della mia vita». Qualche anno fa, la tentazione di costruirsi un "dopo" gli è venuta, e ha trovato in due ettari di vigna con vista sul lago d’Orta il pretesto migliore per «cominciare a lavorare un po’ di meno a divertirsi un po’ di più». Alla fine, per arrivare alle prime centinaia di bottiglie di Pinot nero e Chardonnay è servito molto più tempo (e denaro) del previsto, ma in compenso ad Alessi si sono spalancate le porte dell’agricoltura biodinamica, teorizzata da Rudolf Steiner. «È una scoperta che mi ha cambiato la vita – racconta – perché ho capito che in fondo il mio ruolo in azienda non è diverso da quello di un buon giardiniere: seminare, aspettare, selezionare i frutti migliori, valorizzarli». Risultato, quello che doveva essere un hobby, una distrazione, si è trasformato in un prezioso suggerimento per stare meglio in azienda, e forse anche starci un po’ più di tempo. Già, il tempo. Quello regalato all’impresa e sottratto a tutto il resto. Chi ne sa qualcosa è Bernardo Caprotti, che dall’alto dei suoi 85 anni è al suo posto nell’ufficio della sede milanese di Esselunga tutti i giorni dalle 8 alle 20, dal lunedì al venerdì; nel week end, al riposo preferisce qualche puntata a sorpresa nei supermercati del gruppo, «per chiacchierare con le cassiere, interpellare di persona i clienti e chiedere loro che cosa vorrebbero di più», raccontano i suoi collaboratori. Suggestioni, situazioni, stimoli, che dopo mezzo secolo generano dipendenza: «La consapevolezza di essere leader riconosciuti in tutto il mondo non ha prezzo. È una sensazione impagabile», ammette Ernesto Gismondi, 79 anni, re indiscusso della luce made in Italy con la sua Artemide, pensata e guidata dal 1960. «In questi 50 anni – racconta – più volte mi hanno proposto di vendere, ma poi ho pensato che gestire tanti soldi è troppo difficile. Meglio stare qui al mio posto». Un posto che Gismondi conta di occupare ancora per qualche tempo, «almeno fino a quando questo momento delicato non sarà archiviato. Quest’anno dovremmo tornare ai volumi del 2008, ce l’abbiamo quasi fatta a uscire dal tunnel; ma proprio per questo l’azienda ha ancora bisogno di me». In agenda ora c’è il varo definitivo della controllata indiana, poi con calma Gismondi aprirà il dossier del passaggio generazionale: «Penserò agli eredi, alla nuova governance, a una strada che nel ricambio ci consenta di confermare la nostra leadership».
Esattamente come conta di fare a breve Rosario Messina, artefice delle fortune del marchio d’arredamento Flou. Occupato per buona parte della settimana come presidente di FederlegnoArredo, Messina veste i panni dell’imprenditore quando riesce, tra una trasferta e l’altra, e per questo scruta compiaciuto l’ingresso in azienda dei suoi tre figli: Cristiana, Massimiliano, Manuela. «Affiancati da cinque dirigenti – spiega – si occupano di marketing, ricerca e sviluppo, gestione. Stanno imparando in fretta, quando toccherà a loro si troveranno una situazione ben diversa dalla mia, che quando è morto mio padre non sapevo neanche come stessero i conti». In quarant’anni, è riuscito ad accompagnare l’azienda in un percorso di crescita che l’ha vista passare da 4 a 150 dipendenti, con una forte penetrazione nei mercati esteri. Tutta bravura? «Anche fortuna – osserva – perché chi ha fatto l’imprenditore negli anni 60 ha avuto il privilegio di gettarsi in un mercato che cresceva e chiedeva, e non lasciava neanche il tempo di pensare». «È normale – ragiona – che per chi si trova alle spalle una stagione di questo genere, lasciare l’azienda non sia una scelta solo di tipo economico, ma di carattere personale, affettivo. Conosco imprenditori che dopo essersi ritirati in due anni sono invecchiati di venti». Non è il caso di Riccardo Garrone, che tra il 2002 e il 2003 ha ceduto ai figli Alessandro ed Edoardo le poltrone di amministratore delegato e presidente di Erg, gruppo di famiglia. Per sé ha conservato quella di presidente onorario, ma «da allora – dice – non ho più interferito con la gestione ordinaria del gruppo. Resto azionista e quando sono sul tavolo le grandi scelte strategiche non mi tiro indietro, ma per il resto è tutto in mano ai miei figli». Comunque, per Garrone, 74 anni, la pensione è ancora lontana: «Pensavo di potermi dedicare ai viaggi, allo sci, alla caccia, e invece sono più impegnato di prima». La presidenza della Sampdoria, in cui la famiglia ha investito 140 milioni, la fondazione Garrone, l’impegno nel risanamento del teatro Carlo Felice, di cui è entrato nel consiglio d’amministrazione: «Ho finito una battaglia, ne ho iniziate tante altre», sospira. E a denti stretti ammette che proprio la sfida, insieme al piacere di «combattere per delle cause che ritengo giuste, per di più in piena libertà», per il cavaliere del lavoro nominato da Francesco Cossiga nel 1993 restano il sale della vita. Bestie nervose? Può darsi, ma come in fin dei conti ammette lo stesso Johnson, «giù il cappello».