Guido Rampoldi, la Repubblica 16/9/2010, 16 settembre 2010
FIDEL ATTO FINALE
L´ultima estate dell´ultimo socialismo scientifico è stata, forse, la più triste. L´afa che precipita dal cielo e ti avvolge come una coperta sudicia, mentre la doccia risponde con gargarismi di tubi alle richieste di aiuto e il black-out blocca le pale del ventilatore, tutto questo sarebbe ancora sopportabile se al boccheggiare senza scampo, senza speranza, senza futuro, non si fosse aggiunto, per milioni di cubani, il rischio di perdere il lavoro. Il regime ha annunciato che dovrà licenziare 500mila dipendenti pubblici entro la fine del 2011, un milione da qui al 2015: come a dire che nei prossimi anni un quinto della forza - lavoro non saprà più come campare. Non è soltanto la fine del patto sociale che garantiva a tutti il sufficiente per sopravvivere.
Anche se questo a Cuba non si può dire, è la liquidazione del modello "socialista". Che naufraga dopo 51 anni nel modo più paradossale, con una ristrutturazione "lacrime e sangue" per sommarietà ed estensione tipica delle economie ultra-liberiste. Sarà immolata proprio la generazione che, lo volesse o no, ha "edificato il socialismo": dopo una vita di durezze adesso viene destinata in massa al pensionamento anticipato, cioè alla fame, perché le pensioni non permettono neppure la sopravvivenza alimentare. Inevitabilmente, il regime dovrà ampliare il settore privato, con deregulation già cominciate, affinché i disoccupati vi trovino un´occasione di guadagnare. E´ già caduto il divieto di assumere persone diverse dai propri familiari, presto sarà possibile costituire imprese, sia pure di dimensioni limitate.
Cambierà molto, cioè cambierà nulla. Vincerà chi ha già vinto. Chi oggi dirige il capitalismo di Stato dirigerà il capitalismo privato. Ex ufficiali dell´esercito e della polizia al vertice di società miste, quadri di partito, alta burocrazia, le tribù di artisti, giornalisti e intellettuali organici che s´incaricano di allestire la rappresentazione permanente della Revolucion.
I più fortunati hanno dallo Stato una colf, un autista, una macchina di produzione cinese e una seconda macchina per i figli, se papà non li ha mandati a studiare in Spagna, come spesso accade. A spanne rappresentano un 7-8% della popolazione, un segmento quasi interamente bianco in un Paese dove stime per difetto valutano i cubani di origine africana nel 35%. La dissidenza di sinistra chiama questi benestanti con il nome coniato da un comunista eretico, Milovan Gilas: la Nuova Classe. La neo-borghesia. Ufficialmente revolucionaria. Ma come la borghesia precedente, oggi atterrita dal pericolo di una rivoluzione, una rivolta che unisca gli esclusi, gli sconfitti. A motivo di questo timore, la Nuova Classe aprirà l´economia con circospezione, badando innanzitutto a non perdere il controllo del processo; farà di tutto per evitare di sbloccare anche il sistema politico; e pregherà le divinità astute delle Nuove Classi che conservino Fidel.
Mentre defunge l´unico socialismo reale che ancora abbia fans in Europa, Castro risorge. Nel 2006, quando l´età e svariate malattie lo costrinsero a cedere la presidenza al fratello Raùl, i più erano convinti che sarebbe riapparso in pubblico dentro una bara. Macché. Sopravvissuto a tutto, l´ottantaquattrenne Lìder Maximo sopravviverà anche alla sua creatura. La sua resurrezione è cominciata in una giornata di luglio, con un´apparizione tra gli scienziati di un centro di ricerca, ed è proseguita con incontri pubblici ad un ritmo che non lasciava dubbio sul messaggio sottinteso: sono tornato. Da allora non passano tre giorni senza che Castro si manifesti nei modi più vari, ora discutendo con accademici, o diplomatici, o studenti universitari; ora dando alle stampe una delle sue "Riflessioni", adesso ispirate alla guerra nucleare che considera imminente; ora accampandosi nella programmazione della tv cubana per un paio d´ore, il tempo necessario ad illustrare ad una primafila di generali impassibili qualche pagina del suo ultimo libro, "Il mio pensiero strategico".
Appare fragile e tremolante. Ma la sua voce non è più il soffio di un palloncino che si sgonfia, e le malattie sembrano avergli concesso una tregua.
A L´Avana chi confidava che la sua morte avrebbe avviato la transizione non gli perdona questo tiro basso e deride con rabbia il vetusto Narciso incapace di vivere in disparte. Ma i motivi della sua riapparizione sono anche politici e spartiscono con lo smarrimento di un regime giunto ad un passaggio critico.
Fidel impegna il suo carisma residuo per rassicurare una base sconcertata, placare le ansie dell´ala massimalista, mettere in guardia i troppo audaci, e forse sorvegliare Raùl. Di sicuro il fratello minore del Lìder Maximo non dà garanzie alla Nuova Classe e non è in sintonia con la cultura "eroica" e muscolare del Pc cubano. Molti militanti lo accusano di fiacchezza, di grigiore. E vogliono leggere come un´ammissione di debolezza anche la sua ultima decisione: la liberazione di 52 detenuti politici, per gran parte legati ad un movimento della destra cristiana, scarcerati e deportati all´estero in queste settimane.
Conviene raccontare questa storia perché contiene i segni di quel che potrebbe essere il futuro. In febbraio il regime lascia morire in carcere Orlando Zapata, un prigioniero afro-cubano che fa lo sciopero della fame perché vuole essere considerato quel che è, un detenuto politico. Subito dopo un altro prigioniero inizia a sua volta lo sciopero della fame. Spaventato dalla risonanza della tragedia, il regime corre ai ripari. Il presidente Raùl Castro riceve un importante messo vaticano, poi si riunisce per cinque ore con il ministro degli Esteri spagnolo, Moratinos, ambasciatore delle inquietudini europee, e con due prelati cattolici, Jaime Ortega, arcivescovo di Avana, e Dioniso Garcia, portavoce della Conferenza episcopale. Trovato un accordo sui detenuti si discute del movimento di protesta fondato dalle mogli di alcuni di loro, las Damas de blanco; e da lì si comincia a parlare di scenari futuri.
Da quel giorno di luglio alcuni dissidenti hanno motivo per credere che un settore del regime non escluda più la possibilità di un´apertura. Non la desidera e non intende rinunciare al monopolio del potere. Ma se il malcontento crescesse, cercherebbe la collaborazione delle uniche due opposizioni che da qualche tempo la polizia segreta tolleri: il cattolicesimo sociale, rappresentato dalla rivista Espacio laical, legata all´arcivescovado, e la "Corrente socialista democratica cubana", riconosciuta dall´Internazionale socialista. Al momento minuscole (se si organizzassero verrebbero subito colpite), queste due realtà godono di affidavit sufficienti a giustificare l´audacia con cui ora si propongono. Nell´ultimo numero di Espacio laical, l´editoriale definisce l´accordo sui detenuti «un trionfo» tanto dell´arcivescovo quanto del governo di Raul Castro, e candida la Chiesa al ruolo di facilitatore "neutrale" di un accordo globale sulla libertà di opinione e sul modello economico.
Ha un futuro l´idea del dialogo nazionale? Fidel e l´ala massimalista del Pc non la accetterebbero mai. E hanno una notevole esperienza nel sabotare ogni cambiamento, svuotare ogni discussione, serrare ogni apertura. Però stavolta la loro interdizione potrebbe fallire. Il regime naviga a vista in acque molto agitate. Dopo aver cercato inutilmente il patronato di Pechino, ha trovato in Chavez un generoso fornitore di energia e di investimenti, per l´equivalente di 3-4 miliardi di dollari l´anno. Però Chavez è precario, e la sua sconfitta nelle prossime elezioni sarebbe una catastrofe per Cuba. E poi, gli Stati Uniti.
Dieci presidenti americani hanno tentato di far fuori Fidel, anche fisicamente. E tutti hanno fallito. L´undicesimo, Obama, lo ignora. Peggio: favorisce gli scambi culturali Usa-Cuba, le relazioni orizzontali, insomma priva il castrismo del nemico necessario, l´Imperialismo. Se viene meno quella minaccia, cosa ancora giustifica lo stato di eccezione per il quale il castrismo è tuttora al potere? Ormai le relazioni tra le due sponde sfiorano il paradosso. Talvolta il regime lancia accuse alla Cia. Ma l´unica rivista del comunismo cubano che meriti di essere letta, la vivace Temas, è mantenuta in vita da finanziamenti americani (l´ultimo numero era dedicato alle relazioni Usa-Cuba). E non sorprende che Fidel affidi ad un mensile statunitense la sua esternazione sul modello cubano che «non funziona più»: come se cercasse di farsi notare, di far parlare ancora di sé a Washington.
Qualcuno deve avergli fatto notare che per frasi analoghe dissidenti cubani sono stati condannati ad anni di galera, e Fidel si è dichiarato vittima di un malinteso. Ma che il modello sia un disastro ormai lo dice, senza possibilità di smentita, l´ammissione che un quarto dei dipendenti pubblici sono in esubero. Il problema cui il castrismo non potrà sfuggire è se si possa cambiare il modello economico senza cambiare il modello politico. «Il sistema cubano è fondato sulla figura del Lavoratore, non del Cittadino», mi dice Manuel Cuesta Morua, lo storico afro-cubano che guida la Corrente socialista democratica. «Ma se non riesce più a garantire il lavoro, chi rappresenta?».
Incontro Cuesta nei paraggi del vecchio parlamento, quel Capitolio che dal 1929 staglia sulla città vecchia la sua cupola maestosa e i colonnati neoclassici. Il palazzo non ha avuto molta fortuna durante il castrismo. Per quarant´anni il regime ha castigato con l´incuria e con il buio la sua doppia colpa. E´ una copia, per giunta più piccola, del Capitolium di Washington. E prima che il golpe di Batista lo rendesse irrilevante, produsse una Costituzione, nel 1940, tra le più avanzate del continente americano.
Negli ultimi anni l´edificio è stato sottratto alla colonia di pipistrelli che vi nidificava. Adesso è transennato: lo stanno ristrutturando. Non so se la possibilità sia già negli scenari cui lavorano i servizi segreti cubani, ma non è più folle immaginare che un giorno Manuel Cuesta siederà in quel Capitolio tornato parlamento.