Mario Baudino, La Stampa 16/9/2010, 16 settembre 2010
VIA LIBERA ALLA BIRRA FAI DA TE
Esiste un birrificio artigianale a 2650 metri d’altezza, che com’è ovvio funziona solo d’estate. E’ sulle Alpi del Cuneese al rifugio Pagarì, dove Aladar, al secolo Andrea Pittavino, ha installato pentoloni e fermentatori per gli escursionisti. Ma a parte la posizione inusuale, il piccolo impianto non è una rarità. Il fronte dei piccoli birrai è sempre più ampio, e sta conquistando un ruolo crescente. Ha ottenuto anche un riconoscimento ufficiale, perché un decreto ministeriale permette a chi coltiva l’orzo di produrre la sua birra in una situazione fiscale più vantaggiosa. Può considerarla come «attività agricole connessa»: ha cioè gli stessi diritti e doveri dei coltivatori-produttori di vino, mentre prima era penalizzato.
Detto questo, la burocrazia esiste per tutti, e nel caso dei birrai è complicata, come ci spiega Luca Giaccone, curatore della «Guida alle birra d’Italia» pubblicata da Slow Food. Si aggiunga che molto spesso i nuovi artigiani importano la materie prime. Il segnale è però importante, forse addirittura in grado di smentire Ernst Jünger. Il grande scrittore tedesco di «Tempeste d’acciaio» vedeva un contrasto importante tra le civiltà della birra e quelle del vino, preferendo le seconde, dionisiache, alle prime, introverse: ma fra il vino e la birra italiani scoppia la pace, mentre un esercito di raffinati produttori bussa alle porte. Saranno tutti al Salone del Gusto, in uno spazio dedicato, con i colleghi americani.
Il birraio artigiano sta cambiando il modo di bere: non più per dissetarsi nella stagione calda con un prodotto standardizzato, ma una scelta da esperti e buongustai. I numeri dicono che siamo agli inizi, si parla dell’1% del mercato; bisogna sapere però che dietro ai 300 nuovi birrifici d’Italia (tanti sono, un terzo dei quali fra Piemonte e Lombardia) c’è chi, come accade per il vino, ormai fa tutto in casa per il consumo personale. «Sono molto diffusi dei semplici kit che costano un centinaio di euro - spiega Giaccone - e permettono di prepararsi una trentina di litri di birra, lavorando un’intera giornata. Volendo, si potrebbe anche aggiustarsi con le pentole della cucina, visto che si tratta di bollire, filtrare e decantare».
E c’è anche un aspetto curioso: la legge vieta di scrivere su queste attrezzature la parola birra, ragion per cui vengono venduti come «kit per bevanda spumeggiante»: il che a qualcuno evocherà il melodramma e le fosche gelosie della «Cavalleria rusticana», dove si parlava però di vino, ma agli appassionati ricorda l’America degli «home-brewer», dove tutto è cominciato. Qui da noi il fenomeno è giovane. I primi ad avventurarsi furono, spiega l’esperto, due piemontesi e due lombardi, a metà degli Anni Novanta: Teo Musso, che a Piozzo, zona di dolcetto, inventò la mitica «Baladin», e un «birradotto» che porta la bevanda dal birrificio alla birreria in centro al paese; la Beba a Villa r Perosa, Il Birrificio italiano a Lurago Marinone, provincia di Como, e il Birrificio Lambrate nell’omonimo quartiere di Milano.
Sono stati i padri fondatori, e adesso il loro modo d’intendere la birra ha influenzato anche le multinazionali del settore, creando intorno a sé una galassia che si declina in tutte le accoppiate possibili con i negozi, i pub o i ristoranti. Ad Albisola superiore, nel Savonese, c’è Fiore, una pizzeria famosa perché unisce forno e birrificio. Dice il cinico Homer Simpson: «Tutti noi abbiamo bisogno di credere in qualcosa: io credo che tra un attimo mi farò una birra». La beffarda affermazione è sul punto di diventare politicamente corretta.