Francesco Spini, La Stampa 16/9/2010, 16 settembre 2010
IL CAMBIO TUTA È LAVORO LA RIVINCITA DI CIPPUTI
In fondo sono solo dieci minuti, il tempo di infilarsi una tuta e cominciare la giornata da Cipputi, tra un reparto e l’altro. Eppure su questi dieci minuti si è combattuta l’ultima battaglia che suona come una beffa per chi grida alla competitività perduta del Belpaese: il tempo passato nello spogliatoio aziendale deve finire monetizzato in busta paga? La Cassazione ne è certa: quei dieci minuti vanno considerati come «lavoro effettivo», in quanto comportano una «spesa di energie messe a disposizione del datore di lavoro». Morale: Cipputi sarà pagato anche per indossare la divisa aziendale.
Il caso s’è presentato alla Unilever, colosso internazionale che riempie i supermercati di marchi che vanno dagli ammorbidenti di Coccolino ai gelati Algida fino ai dadi Knorr e ai dentifrici Mentadent. Succede che la Corte d’Appello di Roma, nel lontano 2005 - del resto questi sono i tempi della giustizia italiana - abbia dato ragione ad alcuni lavoratori degli stabilimenti italiani della multinazionale, decidendo che Unilever inserisse in busta paga l’equivalente di dieci minuti quotidiani, per 45 settimane l’anno, necessari per infilarsi la tuta negli spogliatoi aziendali.
Dopotutto il rito della tuta, alla Unilever, è affare complicato. Anzitutto non si fa a casa, ma in azienda. I lavoratori, a suo tempo, avevano fatto presente ai giudici che, per accedere allo spogliatoio, devono entrare nel perimetro aziendale attraverso un tornello da aprire col tesserino magnetico di riconoscimento. Poi, alla fine di un corridoio lungo un centinaio di metri, accedono ai locali adibiti al cambio d’abito; un’altra timbratura del cartellino e la giornata di lavoro può avere inizio.
Da quando comincia, però, il tempo retribuito? Dal primo o dal secondo tornello? Secondo Unilever - a cui il tribunale di primo grado aveva dato ragione, sentenza poi ribaltata in appello - il tempo passato a infilarsi la tuta «non richiede applicazione assidua e continuativa ed è equiparabile a un riposo intermedio, ovvero al tempo necessario per andare al lavoro». Vero, se il rito della vestizione si consumasse a casa o comunque al di fuori del posto di lavoro. Secondo i supremi giudici della Cassazione, che hanno respinto il ricorso della multinazionale, se è il lavoratore a scegliere il luogo dove cambiarsi «la relativa attività fa parte degli atti di diligenza preparatori allo svolgimento dell’attività lavorativa e come tale non deve essere retribuita». Il punto è che Unilever - ed è questa prassi comune a diverse fabbriche - disciplina nel dettaglio anche la fase della vestizione. E «se tale operazione è diretta dal datore di lavoro - puntualizza la Cassazione - rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo ad essa necessario deve essere retribuito». Questo si giustifica col fatto che nel rapporto di lavoro «deve distinguersi una fase finale, che soddisfa direttamente l’interesse del datore di lavoro e una fase preparatoria, relativa a prestazioni o attività accessorie e strumentali», spesso altrettanto importante perché propedeutica all’attività principale. Se è così, il datore di lavoro deve pagare e, una volta tanto, Cipputi riesce a spuntarla.