Massimo Ciancimino, Francesco La Licata, Don Vito, 2010, 313 pagine, 18 euro., 15 settembre 2010
Massimo Ciancimino, Francesco La Licata, Don Vito, 2010, 313 pagine, 18 euro. Moniti. Massimo Ciancimino aveva quasi diciott’anni, ma immancabilmente doveva accompagnare dal barbiere il padre Don Vito, che vi si recava quasi ogni giorno per il rituale della rasatura
Massimo Ciancimino, Francesco La Licata, Don Vito, 2010, 313 pagine, 18 euro. Moniti. Massimo Ciancimino aveva quasi diciott’anni, ma immancabilmente doveva accompagnare dal barbiere il padre Don Vito, che vi si recava quasi ogni giorno per il rituale della rasatura. Quella mattina d’estate, quando sfogliava svogliatamente “Epoca” e d’un tratto riconobbe nell’identikit di Bernardo Provenzano “l’ingegner Lo Verde”, che spesso e volentieri era ospite a casa loro. Il monito di Don Vito quando il figlio gli chiese conferma che fosse lui: «Ricordati che non è concesso sbagliare, da queste cose non ti posso proteggere neppure io». Ripetizioni. Vito Ciancimino frequentava l’istituto per geometri di Corleone, quando i genitori di Bernardo Provenzano glielo affidarono perché gli desse ripetizioni di matematica. Erano i tempi in cui Vito Ciancimino poteva ancora dargli del cornutazzo e scappellotti quando sbagliava (l’unica rivelazione concessa da Don Vito al figlio). Catene. Al figlio Massimo riservava punizioni peggiori. Per ogni brutto voto una settimana di clausura nello sgabuzzino che faceva da spogliatoio al personale di servizio, unica compagnia il libro Cuore (a Massimo era consentito uscirne per mangiare a tavola – da solo -, e per andare a dormire). Massimo della pena quando fu rimandato in terza media: catena di diciannove metri e due lucchetti resistenti (due mandati a entrambe le gambe, i sedici metri di rimanenza bastavano esattamente a raggiungere il bagno). Campanelli. Per chiamare i figli Don Vito usava il campanello, a ognuno corrispondeva un numero di squilli in ordine di nascita (quattro per Massimo, ultimogenito, mentre Luciana era esentata in quanto femmina). La servitù accorreva al suono prolungato. Lingotti. Don Vito invece nemmeno si scomodò ad alzarsi - in pigiama era e restò -, il giorno in cui Riina andò in visita a casa sua per portargli in dono un lingotto d’oro che quello prese in consegna senza scartare, per poi disfarsene immediatamente dandolo a Franco Bonura, perché ci facesse qualcosa, visto che aveva a che fare con un’industria argentiera (anno 1981, Riina premeva perché l’appalto per la costruzione del Palazzo dei Congressi di Palermo fosse concesso a Carmelo Costanzo di Catania, mentre Don Vito non ne voleva sapere – e glielo disse -, perché spettava a un’impresa di Palermo, infatti poi non se ne fece niente, per evitare una guerra). Pignatone. “Pentolone”, la cassetta di sicurezza presso lo Ior dove Don Vito depositava il sei per cento delle tangenti sui grandi appalti (il quattro per cento andava alla politica, il due per cento alle messa a posto dei mafiosi). Ciascun partito incassava una percentuale proporzionale al peso elettorale (salvo i comunisti, che in compenso ci guadagnavano l’assegnazione di lavori a imprese di sinistra). Il sistema “dell’equa parte”, come lo chiamava Don Vito. Ior. Spesso e volentieri era Roberto Calvi, presso lo Ior, a consegnargli le tangenti (nel 1980 una somma imprecisata, proveniente dal più grande erogatore di finanziamenti occulti ai partiti, l’Eni). Anno 1990, presso lo Ior c’era sempre Don Vito a fare da collettore della madre di tutte le tangenti, quella che Raul Gardini pagò per uscire da Enimont guadagnandoci a spese dell’Eni (Don Vito prese in consegna 800 milioni, all’Onorevole Lima il compito di distribuirli tra i vari politici siciliani). Toccava sempre a Massimo accompagnare il padre fino alla farmacia del Vaticano, all’appuntamento coi soliti prelati che lo conducevano fino alla banca (dove Don Vito aveva anche una cassetta personale). Contrordini. Consuetudine di Don Vito, gli incontri a Roma con Pippo Calò, in genere per questioni attinenti la “messa a posto”, tranne quando sequestrarono Aldo Moro. Per trovarlo fu interessata la mafia, per iniziativa dei cugini Ignazio e Nino Salvo d’accordo con la Dc siciliana del segretario Rosario Nicoletti e Salvo Lima. Calò il covo di via Gradoli pare che lo avesse trovato (con l’aiuto della Banda della Magliana), ma poi non se ne fece niente perché a Don Vito arrivò il contrordine per il tramite dell’Onorevole Attilio Ruffini, pare a seguito di richiesta del segretario nazionale Dc Benigno Zaccagnini. La stessa cosa gli dissero l’ingegner Lo Verde e il signor Franco (il secondo accompagnava quasi sempre il primo, Massimo sapeva solo che era un uomo dei servizi, nient’altro). Pure dagli ambienti della Gladio gli dissero di non andare oltre. Debolezze. Arrivò Tommaso Buscetta e le sue dichiarazioni non lasciarono indenne nemmeno Don Vito. Falcone era determinato nell’individuare i beni che aveva accumulato nel tempo e occultato all’estero (in Canada soprattutto). Prima era tutta un’altra storia. «Diceva mio padre che quei tempi, quelli dove tutto avveniva alla luce del sole, erano stati i migliori. Si creava una consuetudine e una vicinanza quasi familiare con le alte sfere della magistratura, fatta di viaggi, cene, feste e incontri a casa di Salvo Lima. Mi fece tanti nomi, mio padre, alcuni dei quali ancora oggi impegnati in ruoli di vertice nella magistratura. Li definiva “avvicinabili”, ciascuno con la propria storia, le parentele, le proprie debolezze e i bisogni […] Ciò che mi ha detto ho trasferito, oggi, ai pm che mi interrogano» (Massimo Ciancimino). Periti. Per impedire il sequestro dei beni Don Vito si rivolse all’ingegner Lo Verde e al signor Franco, che a sua volta interessò un professor Di Miceli, commercialista di Palermo. Finì che i periti andarono a dire al giudice che doveva disporre il sequestro, che i beni di Don Vito erano di provenienza lecita. Manette. L’arresto arrivò comunque, il 3 novembre 1984. Ma il signor Franco non smise di interessarsi di Don Vito, a dire di Massimo Ciancimino. Fu grazie a lui che a Rebibbia incontrò Nino Salvo, che sotto la doccia gli disse: «Hai capito di quali romani ci parlò Salvo Lima allora, sull’omicidio di Dalla Chiesa? […] Ti comunico che a decidere l’assassinio di Dalla Chiesa e La Torre è stato Giulio Andreotti». Così riferì Don Vito ai pm Gian Carlo Caselli e Antonio Ingoia nel 1993: «Vedendomi sconvolto, Nino mi ribattè che Dalla Chiesa sapeva molto sui cadaveri nell’armadio di Andreotti». Soggiorni. Il signor Franco raggiungeva Don Vito anche a Rotello, in provincia di Campobasso, dove i giudici avevano stabilito che doveva vivere (nell’84, al soggiorno obbligato, perché era socialmente pericoloso). In quel periodo riuscì a incontrare anche l’ingegner Lo Verde, ma solo a Palermo. Ci pensava sempre quel professor Di Miceli, che si occupava di ottenere i permessi. Finché l’obbligo si soggiorno non si tramutò in divieto di soggiorno (a Palermo), e Don Vito si trasferì a Roma (anno 1989). «Mio padre beneficiò della legge che aboliva il soggiorno obbligato […] Questa provvidenziale riforma legislativa non era caduta dal cielo. Mio padre non perdeva mai occasione per sollecitare i vecchi amici […]. Più di una volta ne aveva parlato con Salvo Lima e proprio a casa dell’amico aveva incontrato il suo compagno di corrente Mario D’Acquisto, allora sottosegretario alla Giustizia» (Massimo Ciancimino). Giammanco. «Poi arrivò l’indagine cosiddetta “Mafia e appalti”. Siamo a cavallo fra gli anni ottanta e novanta. Il rapporto era dei carabinieri, ma non venne mai sviluppato come si sarebbe dovuto dal procuratore Pietro Giammanco e dal suo staff» (Massimo Ciancimino). Terrorismo. L’omicidio di Salvo Lima (12 marzo 1992), e poco dopo la strage di Capaci (23 maggio 1992). «Questo è terrorismo, non è mafia», andava ripetendo Don Vito «Falcone spesso girava per Roma e spesso anche senza scorta. Io l’ho incontrato più volte al ristorante La Carbonara, a Campo dei Fiori, e loro lo sapevano. Perché allora questa sceneggiata? […] Altre entità stanno armando la mano dei mafiosi… Questa non è farina del loro sacco». A dire che la regia non era mafiosa, che la mafia era solo la base logistica. Trattativa. Dalla strage di Capaci non passò una settimana, ricorda Massimo Ciancimino, che lo avvicinò all’aeroporto di Fiumicino il Capitano De Donno (antica conoscenza, da quando dirigeva le perquisizioni in casa Ciancimino). Lo mandava il colonnello Mori (quello che sarà processato prima – ma assolto -, per non aver perquisito il covo di Riina, e poi per non aver arrestato Provenzano quando avrebbe potuto). La richiesta era incontrare in segreto Don Vito, «per cercare di mettere fine a questa carneficina» (parola di De Donno, secondo Massimo Ciancimino). Coperture. Don Vito era agli arresti domiciliari a Roma. Cominciò un serrato scambio di pizzini con Provenzano alias Lo Verde, mentre gli incontri con il signor Franco (una volta perfino con Provenzano), avvenivano con agio a Roma. Massimo Ciancimino a fare la spola in aereo tra Roma e Palermo, bisognava coinvolgere anche Riina. Intermediario Antonino Cinà (di professione medico, andava per la migliore tra i latitanti, tutti suoi clienti). Prima di darsi tanto da fare Don Vito volle sapere da De Donno qual era la copertura. Risposta: «Ne sono al corrente gli onorevoli Rognoni e Mancino» (così disse Don Vito al figlio, ma loro negano). Papello. Massimo Ciancimino ricevette il “papello” da Cinà a Mondello, di gran fretta, perché quello non era nemmeno riuscito a trovare parcheggio. Era l’ultima settimana del giugno 1992. Tasse. Col nome “papello” in Sicilia intendono la pergamena con su scritte filastrocche oscene in latino maccheronico, conferita alle giovani matricole degli atenei siciliani in cambio del pagamento di una tassa agli anziani quando si festeggia il loro ingresso in facoltà. Il papello che Riina fece pervenire a Don Vito stabiliva la tassa che lo Stato avrebbe dovuto pagare alla mafia, in cambio della cessazione delle stragi (il primo a parlarne in questi termini, Giovanni Brusca, dopo essersi pentito). Enciclopedie. Il papello, come i pizzini, Don Vito li nascondeva nelle copertine della Treccani, in casa, e sfuggì a tutte le perquisizioni. Don Vito tirò tutto fuori nel 2002 (non mancava molto alla sua morte), quando si era messo in testa di scrivere le sue memorie con il figlio Massimo. Minchiate. Il papello di Riina era inaccettabile («minchiate», liquidò Don Vito), lo ammetteva anche Provenzano, e tutti speravano che quello si accontentasse di qualcosa di meno («Il nostro amico è molto pressato», scriveva Provenzano). Don Vito, con l’approvazione di Provenzano, scrisse un contropapello (tra le modifiche, invece della revisione del maxiprocesso, un processo a Strasburgo). Massimo Ciancimino l’ha consegnato ai pm. Un foglio in formato A4, con una nota manoscritta da Don Vito su un post-it giallo: «Consegnato, SPONTANEAMENTE, al Colonnello dei Carabinieri MARIO MORI dei R.O.S.». Ma Riina alzò il tiro (strage di via D’Amelio, 19 luglio 1992). Seconda fase. A quel punto, sostiene Massimo Ciancimino, comincia la seconda fase della trattativa. Provenzano, attraverso Don Vito, avrebbe aiutato i R.O.S. a catturare Riina. Massimo ricorda distintamente la mappa fatta pervenire da Provenzano per individuare il covo del latitante. Ma il 19 dicembre 1992 Don Vito viene arrestato, e dal carcere di Rebibbia, usando il telefono di De Donno, chiama Massimo per dirgli di consegnare la mappa, rassicurato, anche in carecere, dal signor Franco e da Provenzano, che tutto si sarebbe sistemato. Dell’Utri. Il 15 gennaio 1993 Riina viene arrestato, fatto arcinoto nessuno si curò di perquisire nell’immediatezza il covo. Secondo Massimo a quella data gli interlocutori di Provenzano cambiano e Don Vito capisce di essere stato estromesso, anche se in carcere i rapporti col signor Franco, e quindi con Provenzano, continuano e lui viene a sapere, a dire di Massimo Ciancimino, che adesso «Lo Verde era entrato in contatto con la nuova politica di Silvio Berlusconi», attraverso Marcello Dell’Utri. Senso di colpa. Ciancimino viene liberato solo nel novembre 1999, ottenendo gli arresti domiciliari per motivi di salute dopo aver scontato interamente la condanna per mafia. Lo va a trovare Provenzano. «La visita di Lo Verde era un po’ anche il tentativo di riparare a un comportamento, quello del ’92, in seguito vissuto con un certo senso di colpa. E perciò eccolo qui, seduto di fronte al vecchio amico, come a volergli dire: «Che possiamo fare?» (Massimo Ciancimino). Amnistia. Per Don Vito si trattava di tornare un uomo libero, cioè non scontare la pena per i reati comuni che lo costringevano agli arresti domiciliari. L’anno del Giubileo in corso, si sarebbe potuto risolvere tutto con un’amnistia. Di Dell’Utri, dice Ciancimino jr., Don Vito non pensava bene, «ma gli riconosceva, comunque, la capacità di esercitare un grande potere su Berlusconi: “Lo tiene per le palle”». Massimo Ciancimino ha consegnato ai pm i pizzini che Provenzano fece arrivare in seguito a Don Vito per aggiornarlo sullo stato della trattativa per l’amnistia, indicando i passaggi che facevano riferimento a Dell’Utri e l’iniziativa intrapresa per far sì che fosse la sinistra a varare il provvedimento. All’esame degli inquirenti anche una lettera manoscritta dal padre, «su ispirazione» di Provenzano, indirizzata a Silvio Berlusconi con minacce di morte al figlio e «di venire allo scoperto», se non avesse tenuto fede al suo impegno. Ciancimino jr. non ha saputo dire se la lettera sia stata spedita. Quanto all’impegno di Berlusconi il padre avrebbe fatto riferimento a una sua intervista in cui si era dichiarato disponibile a mobilitare i suoi mezzi di comunicazione se qualcuno dei suoi amici ne avesse avuto bisogno. Anomalie. Niente amnistia. Don Vito muore la notte del 18 novembre 2002. Massimo Ciancimino solleva il dubbio che sia stato ucciso. Diverse le anomalie: sconosciuta la causa della morte (gli esiti dell’autopsia a cui è stato sottoposto non sono mai stati comunicati); i moldavi che badavano a lui sono scomparsi nel nulla; sul proprio telefono cellulare Massimo ha trovato una chiamata persa dal telefono del padre delle due di notte (unica informazione che è stata data, invece, l’ora del decesso risale a un’ora prima). Condoglianze. Ai funerali Massimo Ciancimino è stato avvicinato dal signor Franco, che nel fargli le condoglianze, gli ha riportato quelle di Provenzano, scritte in un pizzino. Moloch. «A lui, il Moloch, ho anche provato a volergli bene, a capirlo, a giustificare, specialmente da ragazzino, molti dei suoi gesti incomprensibili. Giuro, nonostante tutti i miei sforzi non ci sono mai riuscito. La cosa più triste è che ancora oggi non riesco ad avere nostalgia di un sol giorno trascorso insieme. Non ricordo un abbraccio spontaneo, una parola dolce e così, in assenza di queste parole, sono riuscito a consolarmi persino con il suo “testa di cazzo”». Imprecazioni. Don Vito aveva perso il fratello maggiore (entrambi colpiti da difterite, l’uno era sopravvissuto, l’altro no). Alla sua morte sentì la madre imprecare: «Dio mio, se mi dovevi punire, perché ti sei preso proprio lui?». Casseforti. Anche Massimo Ciancimino fu arrestato, nel 2005, per riciclaggio. Adesso dice agli inquirenti di non capacitarsi del perché in quell’occasione i carabinieri non abbiano perquisito le casseforti di Palermo e Mondello che lui aveva messo a disposizione. Fu invece sequestrato uno scatolone contenente la lettera manoscritta dal padre indirizzata a Berlusconi e la scheda sim con il numero del signor Franco. Massimo lo aveva chiamato per dirglielo, ma quello gli disse di non preoccuparsi, di non fare parola della trattativa e di portare il contenuto delle casseforti nel Liechtenstein, presso una cassetta di sicurezza di una società di Hong Kong (a cui Ciancimino dice di avere dato modo di accedere in seguito agli inquirenti). Il contenuto dello scatolone pare giacesse dimenticato negli uffici dei carabinieri, finché Ciancimino, presa la decisione di collaborare, non lo segnalò ai pm Ingoia e Di Matteo. Tradizioni. «La spartizione degli utili a Milano dura dal tempo dei celti, e a Palermo dai tempi dei fenici» (da Le mafie, di Vito Ciancimino, in cerca di editore). Patente. Al compimento dei diciott’anni per prenderla a Massimo Ciancimino bastò presentarsi puntualmente alla Motorizzazione quando glielo ordinò il padre («Ho chiamato personalmente e ti aspettano. Mi raccomando, non fare la testa di cazzo e sii puntualissimo»). Raccomandazioni. Una volta Don Vito segnalò al nipote Enzo Zanghì un giovane che gli era stato raccomandato da Provenzano, perché lo assumessero nei cantieri del Comune. La risposta di Don Vito quando Zanghì gli telefonò per comunicargli che a quello mancava un braccio e neanche potevano sottoporlo alla prova pratica: «Vuol dire che il palo lo metti tu al posto di quello sfortunato! Enzio mio, se era una cosa normale che chiamavo a te? Bastava il nome e cognome, se era una cosa normale». Femmine. Don Vito non si faceva mancare le femmine e non si tirò indietro nemmeno davanti alla moglie del cognato Aldo, Franca, finché questa, a forza di ostentare indifferenza verso il marito, ingenerò i suoi sospetti e lo costrinse a pedinarla. Quando Aldo li vide entrare nel palazzo dove i costruttori Bonura e Buscemi avevano messo a loro disposizione un appartamento arredato di tutto punto, chiamò sul posto la sorella per dimostrarle che il marito la tradiva. L’autista di Don Vito lo avvertì e lui chiese l’intervento di Bonura e Buscemi. Il tempo di arrivare, una squadra di operai in mezz’ora aprì un varco attraverso la parete dell’alcova per consentire la fuga di Don Vito verso la poltrona di sindaco (uscendo, Franca, con l’aria di chi non si aspettava di trovarlo lì, spiegò al marito di essersi recata a visitare un alloggio in vendita per conto di un’amica). Ipocondria. Don Vito era ipocondriaco e al mondo esisteva solo un medico che avrebbe potuto salvarlo: il Prof. Raul De Preux. Studio in Svizzera, vi si recava ogni sei mesi, ogni volta certo di andare incontro a un responso di morte, e ogni volta come resuscitato nel sentirsi dire che era sano come un pesce. Unico essere umano di fronte al quale perdeva la propria arroganza, quando la moglie gli comunicò che era morto, cadde in depressione e si chiuse per una settimana in camera da letto annullando ogni impegno politico. Finì che la moglie si era sbagliata e quando Don Vito lo venne a sapere la maltrattò a tal punto che lei se ne andò di casa per qualche giorno. Glielò rinfacciò sempre: «Tu sei quella che ha fatto morire Raul De Preux per vendicarti di me». Maghi. Don Vito andava in chiesa solo per le cerimonie a cui non poteva mancare, non come sua moglie, che non perdeva una messa e si affidava ai maghi per comunicare coi morti. Per prenderla in giro il figlio Giovanni annotò sulla sua rubrica telefonica nomi di stregoni (da Nostradamus ad Othelma), ma arrivò l’arresto di Don Vito e l’agenda finì nelle mani degli investigatori. Giovanni lo venne a sapere dall’“Espresso”: i magistrati avevano sequestrato una rubrica con su scritti nomi in codice con numeri cifrati che sicuramente si riferivano a conti esteri (Don Vito, messo di fronte alla rubrica si era avvalso della facoltà di non rispondere). Giovanni chiese di essere sentito e Falcone gli credette. Malocchio. Non che Don Vito fosse immune dalle superstizioni. Sempre sospettoso che qualcuno gli facesse il malocchio, si affidava a uno zio Mimì, con fama di rabdomante, che gli aveva preparato un sacchettino pieno di sale e farina, da cui lui non si separava mai. Capitava una disgrazia, il sacchetto andava svuotato, il contenuto disperso in giardino e riempito di nuovo, ma poteva farlo solo zio Mimì, recitando le dovute preghiere.