15 settembre 2010
Renato Vallanzasca
Carlo Bovini, Renato Vallanzasca, Il fiore del male, 1999, Marco Troppa editore, 277 pagine, 16 euro. Pena finale a cui è stato condannato determinata dal provvedimento di cumulo della procura generale di Sassari il 24 giugno 1998: ergastolo, con isolamento diurno per la durata di mesi 36, £ 7.640.000 di multa, interdizione perpetua dai pubblici uffici e legale durante la pena, casa di lavoro per anni 2, decorrenza dal 20.3.1981 (data di commissione degli ultimi reati che hanno comportato la pena dell’ergastolo), «con scadenza mai». Figlio illegittimo di Osvaldo Pistoia e Marie Vallanzasca, nasce a Milano il 4 maggio 1950. Il padre, nato a Pisa, trasferito a Milano, a nove anni indossava già la tuta blu per lavorare negli altiforni. Prima ai laminatoi dell’Ilva, poi alle linee della Savoia Marchetta. A sedici anni entrò alla Breda, reparto materiale rotabile. Nel ’28 l’ultima fabbrica, Fiat Lingotto di Torino, dove perse due dita sotto una pressa. Tornato a Milano aprì un banco di frutta e verdura e nel ’32 sposò Rosa Pescatori, con cui mise al mondo due figli, Ennio e Giorgio. Nel ’44, in una sala da ballo, fu amore a prima vista con Marie Vallanzasca, figlia di albergatori di Lesa, sul Lago Maggiore, che insieme alla sorella aveva aperto un negozio di abbigliamento a Milano. Lui le raccontò di essere un giornalista del “Corriere della Sera” e le nascose di essere padre di famiglia. Finché lei si presentò in redazione e scoprì la bugia. Finisce che Osvaldo presenta a Marie moglie e figli. Nell’ottobre del ’48 si separa da Rosa con la promessa di non lasciarsi mai e va a convivere con Marie (lui ha 47 anni, lei 31). Dopo Renato (cinque chili e settecento grammi), il secondo figlio, Roberto, nel ’53. Nel ’56 la casa di via Porpora, 162, proprio sopra il negozio, diventa troppo piccola, e papà Osvaldo manda Renato e Roberto a vivere con la prima moglie, che per loro diventa “zia Rosa” (al numero due di via degli Apuli). Significa anche trasferirsi da un quartiere piccolo borghese a un quartiere popolare. Tra i soprannomi coniati dai giornalisti, il bandito della Comasina. «Di fatto conoscevo quella zona come la gran parte di Milano, periferie comprese […] Ma se dovessi legare la mia adolescenza a una zona di Milano, allora è del Giambellino e di Lambrate che bisogna parlare». Dove i ragazzi come lui venivano chiamati ligera, sempre pronti a darsi alla fuga per averne combinata una grossa, dal furto delle figurine al gioco del carelot. «El carelot… bei tempi». Un ripiano di assi con una ruota davanti e due dietro incastrate su cuscinetti a sfera, si divertivano come pazzi a legarlo con lunghe corde al rostro posteriore dei tram, all’altezza delle ruote. Partenza capolinea di piazza Tirana, vinceva chi resisteva più a lungo correndo in parallelo al tram. Non oltre duecento metri dalla partenza, dove cominciava una fila di pali della luce. «A quel punto era importante riuscire a tendere la corda per creare l’effetto fionda all’impatto con il palo, facendosi così catapultare più lontano possibile». Una volta Vallanzasca andò oltre: «Arrivai in piazza Napoli che avevo ancora una buona andatura. Il verde era appena scattato e i mezzi che avevo di fronte rischiavano di rallentarmi. Così non trovai di meglio che infilarmi sotto la pancia di un grosso camion. Quando l’autista mi vide sbucare da sotto le ruote, si spaventò a tal punto che entrò dentro le vetrate del mercatino coperto del verduraio all’incrocio con viale Carlo Troya». La professione di ladro la impara fin da piccolo, cominciando da album di figurine e fumetti (una vera passione). Dalle edicole passa a Standa, Rinascente, Upim. Una cantina abbandonata di via Apuli numero sei è il nascondiglio della refurtiva. Un pomeriggio d’inverno del 1960, incuriosita dai rumori, una vicina si affaccia e lo scopre. Per farla tacere Renato le offre un phon. La voce di sparge nel vicinato e Renato e i “suoi” cominciano a fare furti su commissione, per lo più accontentandosi in cambio di frittelle e pane e marmellata. «Non so quando rubare smise di essere un passatempo per diventare una professione. Sarà perché non mi pare di aver fatto altro nella vita. Certo, non provenivo da una famiglia ricca. Ma non è questo il motivo per cui cominciai. Non avevamo problemi che giustificassero le mie scelte. Ho cominciato e basta. C’è chi nasce per fare lo sbirro, chi lo scienziato, chi per diventare madre Teresa di Calcutta. Io sono nato ladro». La prima esperienza in carcere a otto anni, per avere liberato dalle gabbie gli animali del circo Medini. Non ci pensò due volte vedendo il domatore frustare una tigre perché, accorgendosi che qualcuno si era sbagliato a darle la seconda razione di carne, fece per toglierla dalle fauci, ma quella non voleva mollarla. Attuò il piano di notte, coinvolgendo anche il fratellino Roberto di cinque anni (poco ci mancò che quello non si facesse travolgere da un elefante). La mattina viene prelevato dai poliziotti mentre gioca a pallone e rimane nella sezione carceraria del Beccarla per due giorni senza che nessuno avvisi i genitori (Roberto, mantenendo la promessa, non se l’era cantata). A scuola non se la sarebbe cavata male, se non fosse stato per la condotta. Il primo anno di scuola media viene respinto per la condotta, nonostante un’ottima media di profitto. L’iscrizione a una scuola di preti non gli giova, perché il rifiuto di fare la prima comunione gli vale la seconda bocciatura. Finché non viene espulso da tutte le scuole d’Italia, per avere picchiato a sangue il professore di matematica, colpevole di aver preso a scudisciate il compagno di classe che lui aveva preso sotto la sua protezione per difenderlo dagli altri che lo prendevano in giro per una malformazione (gli mancava un testicolo e tutti a dargli del frocio). Prenderà la licenza di scuola media da privatista e allora tornerà a vivere nel retrobottega dei genitori. Riprende gli studi ma il corso di perito meccanico non fa per lui. Nel ’66 si iscrive a ragioneria. «Perché era la scuola in cui promuovevano anche i dementi. Dunque, il massimo per uno come me che non aveva né tempo né voglia. E poi, cosa dovevo studiare? Ero educato, parlavo più che correttamente e per il mio lavoro erano altri gli attestati di cui avrei avuto bisogno. Comunque, venni promosso regolarmente senza mai aprire un libro di testo. E dico “di testo” perché leggere mi è sempre piaciuto. Non per dovere. E poi sapevo benissimo che in banca sarei entrato sicuramente. Ma saltando il bancone». Fin da adolescente gli piace spostarsi in taxi (da qui il nomignolo di Mister Taxi). Tanto che, quando ruba la prima macchina, a 21 anni, ha già perso il conto dei furti in appartamento e delle rapine. Era già entrato e uscito dal Beccaria e dalle case di educazione per minorenni più e più volte, per scontare pene di quattro mesi in quattro mesi, quando, nel luglio del 1969, entra per la prima volta a San Vittore. «Un furto a un portavalori era diventato una rapina. Se mi avessero dato dieci anni di galera, li avrei fatti senza fiatare. Me li meritavo. E invece incontrai uno di quei presidenti di tribunale convinti che a vent’anni ci si potesse ancora ravvedere». Se la cava con un anno e mesi dieci di reclusione e l’11 giugno 1970, anche grazie all’amnistia, viene scarcerato. Uscito dal San Vittore, con dieci mesi di carcere alle spalle si sente un vero duro e si presenta al festino organizzato dal fratello Roberto sicuro di conquistare il mondo. Lo smentisce Consuelo, la ragazza più bella della festa, ma integerrima (almeno maggiorenne all’apparenza, invece non ha neanche quindici anni). Renato, con il bicchiere di whisky in una mano si libera l’altra della sigaretta portandosela alla bocca per prendere Consuelo per un braccio e le dice di seguirlo, così le insegnerà «un nuovo modo per disfare il letto». Una volta soli lei non cede e lui passa alle maniere forti (prima un ceffone poi le strappa una spallina del vestito). A quel punto lei si spoglia da sola ma gli dice di lasciare i soldi sul comodino quando avranno finito. Una coltellata per Renato, che prende atto della sconfitta e rinuncia ad averla. I due diventano amici inseparabili, finché una sera, per colpa di Renato (che ci impiega più del previsto a portare a termine un lavoretto), Consuelo non fa rientro a casa. Renato la fa dormire a casa dei genitori, senza toccarla con un dito, e il giorno dopo la riporta a casa dei suoi, avvertendo padre e fratello che se mai dovessero torcerle un solo capello, saranno guai per loro. Invece il padre (a cui mancava un pezzo di calotta cranica per un incidente su lavoro), la prende a cinghiate. Consuelo cerca riparo dalla madre di Renato, che non ha dubbi: d’ora in poi vivranno insieme (durante una telefonata implorante della madre di lei, scopre che Consuelo ha appena quindici anni). Renato prende in affitto un appartamento di tredici stanze, quattro bagni, ampio terrazzo. I proventi illeciti glielo consentono (non meno di quindici milioni al mese). Con Consuelo ha il primo rapporto dopo diversi mesi, su richiesta di lei, che rimane incinta quasi subito. Al quarto mese, per essersi spaventata all’ennesimo controllo di polizia, perde il bambino. «Consuelo la visse molto male. Al punto che da allora prendemmo l’abitudine di recuperare tutti i figli di amici e conoscenti per portarli di volta in volta al cinema, allo zoo, al parco dei divertimenti. Lei, io e cinque, a volte otto bimbi dai tre ai dieci anni». Nel ’71 la seconda gravidanza (a luglio del ’72 nascerà Massimiliano, per tutti Maxim). Il 14 febbraio 1972 Renato porta a segno con la sua batteria una rapina al portavalori della Esselunga. Doveva essere l’ultimo colpo della sua vita, in vista della nascita del figlio, prima di iniziare una vita da onesto padre di famiglia. Qualcosa va male durante la rapina, parte del bottino va perso e Renato fa pure l’errore di coinvolgere Consuelo per andarlo a recuperare. Il 29 febbraio viene arrestato e per questa rapina sarà condannato a sei anni. Anche Consuelo finisce in carcere, per favoreggiamento, per uscirne solo a giugno. In carcere Vallanzasca rimane quattro anni. Ne gira trentasei, tra tentativi di evasione e proteste per essere avvicinato alla sua Consuelo e al suo Maxim. Dalla minaccia di tagliarsi le vene (a Bari, gli costa centosettanta punti di sutura), allo sciopero della fame (a Lecce), fino a ingoiare un pezzo di rete metallica e una manciata di aghi a Genova, per non farsi trasferire in Sardegna («Me li porto ancora appoggiati nelle viscere quei pezzi di metallo. All’altezza dell’appendice. Me lo hanno dovuto scrivere sul fascicolo personale, perché ogni volta che passavo al metal detector suonavo»). E in ogni carcere andava cercando botte da orbi dagli agenti di custodia, non perdendo occasione di provocarli. Ultimo tentativo per uscire dal carcere, procurarsi l’epatite virale. «Sono arrivato a siringarmi fino a cinque centimetri cubici del sangue di chi era giallo come un limone […] Niente da fare. Avevo il fegato di un toro». Finché non si fa venire in mente di iniettarsi la sua di urina nel sangue, per venti giorni, e di nutrirsi di uova marce. «Le aprivo come si fa quando le si beve fresche e le mettevo al sole sulla finestra della cella. Nel giro di due o tre giorni cominciavano a diventare verdoline e a emanare un odore nauseabondo. Erano pronte. le friggevo allora in un panetto di burro, e, per vincere la puzza e il sapore spaventoso, le avvolgevo in due sottilette, in modo da farne dei bocconcini. Scivolavano meglio in gola». Per essere sicuro prese anche ad attaccarsi alle bombolette a gas del fornelletto della cella. «Pippare il gas è perfetto. Sballa le transaminasi e se il fegato è già provato da altre mille torture, te lo giochi in un attimo». Finché non viene trasferito in un reparto ospedaliero per carcerati, al Bassi di Milano. Da cui evade, all’alba de 25 luglio 1976. Il tempo di commettere l’ultima rapina prima di realizzare il sogno di ritirarsi dalla malavita per dedicarsi alla famiglia (l’11 agosto, ai danni di una filiale del Credito italiano), il 27 agosto riesce a sfuggire a una pattuglia della polizia, ma per lui significa rinunciare alla prima vacanza con Consuelo e Maxim e la separazione definitiva da entrambi (quando finirà di nuovo al gabbio Consuelo gli fa sapere in carcere che tra loro è finita: a lei e a Maxim ci penserà i suo nuovo compagno, titolare di una ditta di bottoni). Renato rimette su una batteria. Componenti: Vito Pesce (una passione per cocaina ed eroina, usava le armi «a sproposito»: «Con lui anche portar via lo zucchero filato a un bimbo diventava una guerra»); Claudio Gatti (anche lui tossico, «Sempre in guerra con il mondo intero. Solo io riuscivo a tenerlo un po’ a freno); «Mario Carluccio («l’uomo più coraggioso che mi sia mai capitato di conoscere […] leale al punto che, chiunque fosse il suo antagonista, tirava il grilletto sempre dopo che l’altro aveva esploso almeno un colpo. Piuttosto che sparare alla schiena di qualcuno si sarebbe fatto ammazzare. E così accadde»); Rossano Cochis, alias Mandingo, ex paracadutista («L’uomo più strepitoso che abbia mai visto […] con il suo strumento in braccio correva letteralmente contro chi gli sbarrava la strada. Se ne sfotteva che potessero essere in superiorità numerica e gli sparassero a loro volta. Da ex parà si buttava all’attacco. Aveva una risata baritonale»). Il loro core business rapine e scarcerazioni. Tra una e l’altra si divertivano a fare posti di blocco al contrario: bloccavano le volanti nel cuore della notte e disarmavano gli agenti. Dalla fine del ’76 al febbraio ’77 la batteria mette a segno settanta rapine e quattro sequestri (due noti – Emanuela Trapani e l’architetto Bianconi, due mai denunciati dalle vittime). «Io, il bandito anticonformista e un tantino naïf, mi stavo trasformando in un baracchino della Marelli. Peggio che essere alla catena di montaggio. Spesso dovevamo posticipare i lavoro per mancanza di personale. C’erano settimane che non riuscivo neppure a trovare il tempo per dedicarmi a quello che mi piaceva. Andare a cavallo o passare un paio di giorni lontano dalla mischia, a ossigenami un po’ in montagna. Veri stakanovisti del crimine […] Che palle. Non sarebbe potuto durare. E non perché prevedessi un mio inglorioso arresto, ma perché mi stavo riducendo come un travet». Il 23 ottobre 1976 tutti i telegiornali lo danno per ricercato per omicidio. Vittima l’appuntato di polizia Bruno Lucchesi, luogo del delitto Montecatini. Secondo la versione di Vallanzasca il responsabile è un altro, di cui non rivela il nome. A richiesta dell’agente per errore aveva esibito la patente falsa intestata a un Renato Gatti, ma con la foto di Renato Vallanzasca. Per questo omicidio Vallanzasca viene condannato all’ergastolo, nonostante le testimonianze a suo favore di tutti i giocatori del Foggia calcio, che al processo dichiareranno che Vallanzasca era in loro compagnia in un albergo di Foggia (dove lui si trovava per studiare il piano del sequestro del figlio del vicepresidente della squadra). Pochi giorni dopo Vallanzasca porta a segno una rapina in banca, ad Andria, dove muore il secondo innocente. «Pur essendo stato il trascinatore della rapina, non fui io a sparare al cassiere. Quando partirono i colpi, ero nel caveau a rastrellare la grana […] Allora come oggi, mi assumo tutta la responsabilità morale di quello che accadde a Montecatini ed ad Andria. Perché, se non fosse stato per quel documento, l’agente Lucchesi avrebbe vissuto la sua vita. Io sicuramente non avrei forzato al mano, ad Andria non ci sarebbe stata la rapina. Accetto tutte e due le condanne. Ma quando dico che a Montecatini non ero fisicamente presente avrei la pretesa di essere creduto». Passa una settimana dall’omicidio di Montecatini, quando, il 30 ottobre 1976, muore ammazzato il medico Umberto Premoli, per mano di Vito Pesce e Claudio Gatti, che quella sera se l’erano dette più del solito e, gasati dalla droga («Ti ho inventato io», «Sarà. Ma l’allievo ha superato il maestro»), avevano tentato il gioco del posto di blocco al contrario, ma gli andò male, si erano dimenticati di fare benzina, e dovettero fermare la prima macchina che capitava. A bordo Premoli, che alla vista della canna della pistola ingranò invano la retromarcia. «Rientrarono in casa nel cuore della notte e mi raccontarono cosa era accaduto. Ero furioso con loro, ma ancor più con me stesso per non essere riuscito a impedire una tragedia. La morte del dottor Premoli è indubbiamente la più grave delle mie colpe. Anche oggi, a distanza di anni, non riesco a farmene una ragione. Un omicidio gratuito. Avrei dovuto impedire che accadesse. Tra i familiari delle mie varie vittime, lo sguardo che peggio di ogni altro riuscirei a sostenere sarebbe quello della moglie o dei figli di quell’uomo morto per la follia di due ragazzi a cui volevo bene». La mattina dopo ci mancò poco che non li uccidesse entrambi mentre dormivano. Aveva già inserito il silenziatore e appoggiato la pistola alla tempia di Vito. Lo fermò Patrizia, con cui condivideva il letto da qualche tempo. Il 16 novembre 1976, all’esattoria civica di piazza Vetra, a Milano, Vallanzasca voleva fare solo un sopralluogo prima di eseguire la rapina. Dovevano andarci solo lui e altri due. Invece, contro il suo dictat ci andarono tutti, così suscitando i sospetti di un impiegato che allertò la Questura. Vallanzasca fece in tempo a sentire Carluccio sfidare la polizia («Sbirro! Stavi cercando me? Sono qui, girati, sbirro!»). Ma quello fece prima, sparò a bruciapelo uccidendo Carluccio. Quello era il brigadiere Ripani, rimasto anche lui ferito. Vallanzasca non gli perdonò di avere sparato alla nuca di Carluccio, e giorni dopo si travestì da medico e andò per ucciderlo in ospedale dove nel frattempo era stato ricoverato. Invece trovò madre e moglie del brigadiere a piangere al suo capezzale e rinunciò (il brigadiere non sopravvisse comunque). Nei quattro sequestri eseguiti Vallanzasca si impose alcune regole: «Primo: i sequestrati avrebbero dovuto sapere chi era il sottoscritto che li aveva presi. Mi sarei sempre presentato. E non per spavalderia, ma perché il mio nome era una garanzia sotto ogni punto di vista. Secondo: non gli sarebbe dovuto mancare nulla tranne la libertà di movimento e la comunicazione. Le prigioni avrebbero dovuto avere tutti i confort». Il 13 dicembre 1976 il sequestro di Emanuela Trapani, durato quaranta giorni. «Con il passare dei giorni, che quello di Emanuela fosse un sequestro anomalo diventò sempre più evidente oltre che a me anche ai miei soci. Spesso evitavo persino di uscire, e solo per il desiderio di stare con lei. Emanuela era bellissima, intelligente, spiritosa e, con quella timidezza tipica delle ragazzine della sua età, sensuale e femmina come poche. Insomma, con lei stavo bene». La sera del 25 dicembre, per confortarla, si premurò anche di rubare un albero di Natale, e qualche giorno dopo, contravvenendo a ogni regola di sicurezza, la fece affacciare dalla finestra per farle vedere la neve scendere sul naviglio. Una sera lei era riuscita a scappare. La ritrovò e riportò nel nascondiglio. Non si dissero niente, ma lei gli fece trovare scritto sullo specchio del bagno «perdonami», col rossetto. Racconta Vallanzasca che al momento della liberazione si abbracciarono a lungo, in presenza della mamma di lei, donna Hilde, che lo salutò stringendogli la mano: «Addio, ma ora che hai i soldi che volevi, va’ via. Scappa più lontano che puoi. Fallo prima che sia troppo tardi. Qui tutti ti vogliono morto» . Delle quattro persone sequestrate due non denunciarono mai il delitto. Uno, un imprenditore che durante il sequestro ne approfittò per fare quello che a casa non poteva permettersi: sesso a pagamento con una ragazza sì e no maggiorenne e un tiro di coca, ma all’insaputa di Vallanzasca, che invece lo aveva intrattenuto giocando a scacchi. Il sequestro del costruttore Carlo Pesenti, invece, non andò a buon fine. È il 6 febbraio 1977. Vallanzasca alla guida di una Fiat 132, passeggeri Antonio Furiato e Michele Giglio, direzione il lago d’Iseo (dove la vittima predestinata s’incontrava con la sua amante), l’auto viene segnalata per il suo procedere a zig zag. All’uscita del casello di Dalmine vengono fermati da una pattuglia. Il brigadiere D’Andrea apre il fuoco e Vallanzasca lo fulmina, ma viene colpito a sua volta al gluteo mentre Giglio colpisce mortalmente l’agente Barborini al cranio. Nel conflitto a fuoco perde la vita anche Furiato. Trovato rifugio a Roma, Vallanzasca viene arrestato il 14 febbraio 1977 dai carabinieri. Francis Turatello e Renato Vallanzasca se l’erano giurata a morte. Il primo era il re delle bische di Milano, con cui il secondo non aveva voluto mai avere a che fare, se non quella volta che mise a segno un colpo in una bisca lasciando tutti in mutande per poi lasciare il messaggio che con quei soldi ci avrebbero campato per qualche mese dei bravi ragazzi in carcere (insomma, solo per spregio a Turatello). In realtà si trattava di equivoci che in carcere furono chiariti (dei balordi erano andati a rapinare i genitori di Vallanzasca lasciando detto che venivano per conto di Turatello, ma non era vero niente). I due strinsero amicizia per la pelle a San Vittore. Per sancirla occorreva diventare compari e Turatello convinse Vallanzasca a sposarsi in carcere, per fargli fare da testimone e anche per fare notizia. La prescelta, Giuliana Brusa, cugina di primo grado di Claudio Gatti, di anni diciannove, che gli scriveva lettere appassionate e per vederlo andava a Firenze per partecipare a tutte le udienze del processo per l’omicidio di Montecatini. Il bello fu che dopo il matrimonio (celebrato il 14 luglio 1979), Vallanzasca pretese anche lei smettesse di lavorare, inaccettabile il contrario. I festeggiamenti faraonici. «Una torta che arrivava al soffitto. Champagne a fiumi, ma nel vero senso della parola. Cento bottiglie per il matrimonio e alte trenta per noi alla Sezione speciale, dove i festeggiamenti proseguirono. Mentre tutti i millecinquecento detenuti di Rebibbia ebbero il loro birillo di Taitinger a cranio. Senza trascurare il fatto che non ci fu organo di stampa che non continuò a parlare dell’evento per giorni e giorni. Se ci eravamo prefissi di far sapere al mondo intero del nostro matrimonio, inteso come mio e di Frencis, avevamo ottenuto lo scopo». Turatello gli regalò una svastica in oro massiccio con i bordi in onice nera tempestata di brillanti, valore novanta milioni dell’epoca. «So benissimo che non sei fascio, gli disse, ma mi diverte l’idea di metterti in imbarazzo con i tuoi amici compagni». Gli cedette anche una quota delle bische, che Vallanzasca accettò a condizione di usare i proventi per mantenere «parecchi bravi ragazzi» in carcere. Il 28 aprile 1980 l’ennesimo tentativo di fuga da San Vittore, andato male (per recuperare le armi bastava corrompere qualche agente di custodia). Vallanzasca aveva già guadagnato l’uscita quando fu colpito alla testa. «La perizia stabilirà che era stato sparato dalla guardia sulla cinta. Il colmo della sfiga. Un colpo partito da un centinaio di metri era rimbalzato sul muro e mi si era conficcato nella parte alta della nuca». Approfittando che fosse indifeso per terra due poliziotti, per vendicare la morte dei colleghi caduti in conflitto a fuoco con la sua banda, lo stavano per ammazzare, quando sopraggiunse un carabiniere che armò il mitra e lo puntò ad altezza d’uomo contro di loro per fermarli. Fu varata la legge Gozzini e iniziò il fenomeno del pentitismo. «E fu allora che, scelleratamente, cominciai a predicare lo sterminio degli infami. Ero convinto, assolutamente convinto che non fosse giusto che certi esseri potessero continuare a vivere dopo aver commesso la peggiore delle infamità […] Avevo contribuito a mettere in moto un ingranaggio più grande di me. Una macchina infernale in cui rimasero stritolati tanti bravi ragazzi, morti solo perché antipatici a chi era assurto al cielo degli angeli vendicatori […] È un’altra delle cose che non mi perdonerò mai. Di tutti i morti ammazzati di quegli anni, al di là di quelli che fecero quella fine perché coinvolti in guerre tra organizzazioni, almeno la metà non meritava di morire. Era diventata una moda, una mattanza assurda senza più regole, un gioco al massacro». Gli esecutori passarono alla cronaca come i killer delle carceri. Vallanzasca per aver ucciso Massimo Loi, il 20 marzo dell’81, durante una rivolta nel carcere di Novara (la sua testa fu trovata in un bagno alla turca). O almeno così dichiarò lui medesimo al processo, ma l’omicidio fu rivendicato anche da Vincenzo Andraous, nel ’99, nel libro intervista Autobiografia di un assassino, e quando Vallanzasca è venuto a saperlo si è rifiutato di leggerlo. «Per me non cambia nulla. Io sto alle verità processuali, anche perché quando ne ho voluto scriver qualche pagina, io ho chiamato un giudice e ho detto come stavano le cose». Il 17 agosto 1987 anche Francis Turatello muore in carcere, a Badu ‘e Carros. Prima sessanta pugnalate, non mortali, poi lo sventramento. Secondo l’autopsia uno degli aggressori gli ha afferrato le budella e le ha addentate, poi, in segno di dispregio, ha sputato per terra, mentre un altro si è bevuto il suo sangue. Infine, colpo di grazia, un fendente alla gola. Il 18 luglio 1987, sono dieci anni che Vallanzasca è in carcere, quando gli comunicano che devono tradurlo nel carcere di Nuoro, perché iniziano i lavori di ristrutturazione del carcere di Cuneo. Quel giorno Francesco Moser si congedava dal ciclismo professionistico su un circuito della zona e poliziotti e carabinieri erano impegnati, chi per servizio chi per piacere. Fu così che impiegarono nella scorta cinque giovani in erba. Vallanzasca se ne accorge subito, ma l’occasione inaspettata si presenta sulla motonave Flaminia, quando lui riesce a fargli credere che la cabina per i detenuti è quella con l’oblò (più piccola), mentre quella per la scorta è a fianco, buia, ma più spaziosa. Vallanzasca conquista la libertà. Non rinuncia nemmeno allo sfizio di rilasciare un’intervista esclusiva a Umberto Gay, su radio popolare, dove fingono una diretta telefonica. In redazione sottrae la patente di guida a Fabio Poletti, che da quel momento diventa il suo alias. Sceglie di riparare a Grado, per avvicinarsi a Luana Ghiotto, la sua ammiratrice più sfegatata, con cui, da un anno a questa parte, si scambiava lettere per mezzo di Linda Olivo, per evitare la censura del marito (Luana aveva anche avuto un figlio e lo aveva battezzato Renatino). Errore fatale, affidarsi ora a Linda Olivo, che chiama l’amica per telefono facendosi intercettare. La libertà finisce il 7 agosto. L’ultimo tentativo di fuga il Capodanno del ’95, dal carcere di Badu ‘e carros. Gli trovano pistola e telefonino, un tossico di vent’anni se l’è cantata. «Se anche questa volta mi era andata male, due erano le cose: o non ero più così all’altezza, o la cosiddetta malavita era diventata così inaffidabile da dovermi consigliare di mettermi da parte. Insomma, da quel giorno mi sarei ritirato in buon ordine. Ma pensarono bene di mandarmi all’Asinara… Per punirmi, se non addirittura per piegarmi. Sono andato avanti per tutto il tempo della mia permanenza nell’italica Caienna combinandone più di Bertoldo. Ne ho prese tate, anche troppe per quelle poche che sono riuscito a restituire. Ma fino all’ultimo ho sempre fatto di testa mia. Fino a quando non sono tornato in continente». «Spesso dico scherzando che se dovessi evadere oggi l’unico posto in cui saprei andare, anche perché grazie ai cartelli è impossibile sbagliare, sono i carabinieri. È una battuta, ma il paradosso è voluto. Io che i carabinieri li ho avuti sempre avversari ho infatti un’unica certezza: almeno loro sono rimasti gli stessi, quanto meno nel dna. A un maresciallo saprei cosa dire. A un malavitoso dei nostri giorni, no. Di fronte a una donna che spaccia eroina a ragazzini, tenendo per mano il figlio di quattro anni, mi mancherebbero le parole. Al sedicenne che pianta un proiettile in testa a una vecchietta per centomila lire, io, ladro da sempre e anche assassino, cosa potrei dire?». Rimpianti, il figlio, Massimiliano. «Mi sono negato la gioia di crescere mio figlio Maxim. In questi anni ho provato a cercarlo, ma ho capito che non ne vuole sapere di me. E non gli do torto. Vorrei allora provarci di nuovo. A mettere al mondo un bimbo che non si vergogni del cognome del padre». All’avvocato Camillo Rosica, che gli disse di avere intenzione di sostenere la sua infermità mentale: «Avvocato, non diciamo cazzate. Io sono assolutamente sano di mente» (Vallanzasca rifiutò anche di sottoporsi al prelievo del sangue per verificare il possesso del gene della violenza, negli anni Settanta noto come la prova del cromosoma X). Rifiutando l’offerta di firmare il testo di alcune canzoni già scritte per la casa discografica Ricordi: «Non posso, poi qualcuno potrebbe dire che me la sono cantata». Non ha mancato di rispondere a una sola delle lettere che le sue ammiratrici non hanno mai smesso di scrivergli in carcere, spesso e volentieri allegando foto che le ritraevano nude. Ci fu un cancelliere della Procura di Brescia – erano gli anni Ottanta -, che, animato da furore censorio, ricalcava i corpi ritratti con la carta carbone e, in corrispondenza delle parti intime, appiccicava una strisciolina. Vallanzasca non ha mai appeso una foto sulle pareti della cella («Non lo ritengo elegante»). Detiene il record in Italia, con oltre diecimila lettere. *** Leonardo Coen, Renato Vallanzasca, L’ultima fuga. Quel che resta di una vita da bandito, Baldini Castoldi Dalai editore, 2010, 357 pagine, 18 euro. Dall’8 marzo 2010 è ammesso al lavoro esterno per la cooperativa sociale Ecolab. Può uscire dal carcere alle 7 e 30 di mattina e farvi rientro alle 19. Achille Serra, deputato Pd, ex questore di Milano, a suo tempo acerrimo nemico di Valalnzasca: «Vallanzasca ha ormai quasi quarant’anni di carcere, un periodo assolutamente giusto, considerati i crimini di cui è stato protagonista. Omicidi, rapine, sequestri di persona: episodi atroci e drammatici. E tuttavia, egli rappresenta quasi un’eccezione, perché in Italia ci sono molti assassini che dopo neanche dieci anni si ritrovano in libertà. Il carcere deve avere una funzione rieducativa. Questo provvedimento è giusto, gli consentirà di rientrare nella società civile e nel mondo del lavoro». Dalla lettera ricevuta da Vallanzasca durante il processo per l’evasione dall’oblò della motonave Flaminia, a firma «Nonna Violetta di Pinerolo: «[…] Io, come mezza Italia, mi creda, abbiamo fatto il tifo per lei. Siamo stati tutti felici che lei abbia dato una bella beffata ai “grandi pagliacci” di tutta la nostra vita politica. Così pure ci è dispiaciuto tutto l’accanimento di quei poveri giovani carabinieri sui cui si è sfogata la rabbia stupida dei grandi. Vede, la gente comune, terra terra, odia tutti i nostri politici a qualsiasi livello. Che diamine! Certo lei non è un angioletto, 50 ani fa avrebbero fatto di lei il mostro del secolo… Mentre radio e televisione e giornali bla-bla-bla blateravano contro di lei per creare il romanzetto di mezz’estate, quei due spietati assassini di Morucci e Faranda andavano in vacanza premio. Certo, bisogna pure rieducare gli assassini. E lei allora non va rieducato? Lei, insomma nella sua colpevolezza, ha almeno dignità, e, creda, è ancora l’unica cosa che conta in quest’Italia senza più midollo. Si faccia coraggio, signor Renato, l’Italia povera è stata con lei… Dica ai giudici che l’interrogano di smetterla di fare tanta sceneggiata. Diamine, quanta briga per infierire su un uomo morto. Legga, legga molti libri di filosofia e sull’aldilà, abbia fede in Dio, vedrà che nell’aldilà ci sarà un metro ben diverso di giustizia. E forse non sarà proprio lei a sprofondare nell’inferno eterno. Forse le riscriverò. Per intanto una nonna l’abbraccia». Nel prologo de L’ultima fuga, la spiegazione dell’uccisione di Massimo Loi. Non tanto perché aveva noleggiato a suo nome un’auto usata per fare il cambio macchina dopo la rapina a un ufficio postale. Non tanto perché acquistò a nome Vallanzasca un chilo di cocaina. Ma perché aveva fatto da autista a due balordi che erano andati fare una rapina a casa dei suoi genitori, e già che c’erano spaccarono la mandibola al padre Osvaldo. In realtà era di comune dominio che anche Loi se la fosse cantata. Come ricorda l’ex questore di Milano Achille Serra: « Io lo indussi a confessare, mi disse che era capitato per caso nell’organizzazione della banda, era un buono, non un criminale come gli altri, era a suo modo un puro… qualche deficiente, in malafede, qualche venduto, lo trasferì al carcere di Novara, dove c’erano tutti quelli che gliel’avevano giurata. Nel caos della rivolta del 1981, gli tagliarono la testa e ci fu chi ci giocò a pallone… Vallanzasca mi ha sempre conetstato l’accusa che fosse stato lui ad ucciderlo o che avesse ordinato lui l’esecuzione». «Non mi ritengo un “pentito”, ma solo perché questo è un termine molto abusato, e certo non nel senso della contrizione cristiana… Sono convinto che pur rinnegando il mio passato sia evidente il mio intento di non rinnegare me stesso. Ci sono delle cose per le quali dare la vita pur di poterle cancellare, ma mi rendo conto che nel filo della nostra esistenza non è altrettanto facile schiacciare i pulsante del replay. Nonostante questo, c’è qualcosa di cui ancora vado orgoglioso, ma, se permetti, questa è una cosa che mi tengo stretta nel cuore». Il 31 luglio 2007, dopo dodici mesi di stretta osservazione nel carcere di Opera, a sud di Milano, Vallanzasca si è guadagnato la declassificazione dal circuito “EIV” (elevato indice di vigilanza), riservato ai detenuti pericolosi. Il recupero di Vallanzasca era iniziato nel carcere di Novara, sotto la direzione di Fragomeni. Con un computer a disposizione inventariò tutti i libri della biblioteca del carcere. Lo fece così bene che gli commissionarono anche la digitalizzazione del catalogo della biblioteca comunale. Tanto lavoro che Vallanzasca chiese di coinvolgere altri due detenuti. Il lavoro fu consegnato in due mesi e mezzo, in cambio di due milioni e mezzo di lire a testa. Successivamente ha lavorato anche per la comunità Saman, fondata da Rostagno negli anni Settanta. Assunto regolarmente, si occupò soprattutto di ripulire registrazioni audio e video. La più difficile un’intervista alla poetessa Alda Merini. «L’ho fatto con il cuore, perché lei è stata une delle poche persone che mi hanno indotto a tornare a leggere». La passione per la lettura la coltivava fin da bambino. «Divoravo i libri di Salgàri, quelli con Sandokan e i Pirati della Malesia, tra un furtarello e l’altro mi sentivo il tigrotto di Lambrate o del Giambellino, i quartieri dove ho vissuto». «Non c’è nessuna Damasco sul mio cammino, ma la semplice constatazione di un fallimento. Di scelte errate. Non rifarei la vita che ho fatto. Ho procurato troppi dolori a me, ai miei familiari, a quelli che non conosco. Ho commesso errori che mi bruciano. A cui non c’è rimedio. Il mio sogno è quello di poter essere utile, in questo spicchio di fine esistenza. Di lavorare con i ragazzi difficili. Non so se ne avrò la possibilità: per ora mi è capitato di incontrarli qualche volta. A loro ho sempre detto. Non imitatemi. Nessuno meglio di me sa dissacrare i miti. A partire dal mio. Che mito è quello di uno che ha trascorso due terzi della propria vita in galera?». «Non ho mai tradito chicchessia: né amici né nemici, né sbirri. facile non cantarsela accusando un amico; meno naturale è comportarsi nella stessa maniera con un nemico o addirittura con uno sbirro: nessuno può vantarsi di essere stato tradito dal sottoscritto… se non forse, i miei amati. Tutte le persone che mi hanno voluto bene e che per colpa mia hanno avuto sofferenze enormi. Ma questa è un’altra storia…». Vallanzasca vanta di non aver mai pagato un soldo agli avvocati che lo hanno assistito. «A loro conveniva lo stesso difendermi. Addirittura ci fu chi mi offrì dei quattrini per ottenere la mia nomina» (sempre rifiutati). Il figlio di Umberto Premoli, ucciso il 30 ottobre 1976 da Vito Pesce e Claudio Gatti, è stato medico curate dell’anziana madre di Vallanzasca. «Io sono famoso per le mie certezze che nel giro di poco diventano incertezze. Da giovane ero pieno di certezze poi mi sono reso conto che è da pirla. Tutto è effimero». «Mi sono attenuto a un particolare codice d’onore in cui non c’era posto né per il tradimento, né per la droga, né per lo sfruttamento, a cominciare da quello delle donne». Con riferimento alla refurtiva nascosta da bambino in via degli Apuli, 6, e distribuita alla gente del quartiere: «Io non ho mai rubato ai poveri disgraziati (anche perché non c’hanno un cazzo da farsi portar via…), ma a chi ne aveva tanti, possibilmente perfino alle multinazionali. I poveri, in cambio, ci davano fette di castagnaccio. D’estate, l’anguria, il gelato. Ci bastava. Non era per i soldi che si rubava. Ma per sfida. Perché era giusto che anche quella povera gente potesse godere delle cose che per i ricchi erano banali. Mi sentivo Babbo Natale». Con riferimento alla procurata fuga degli animali feroci del circo Medini. «Oggi sarebbe considerata un’azione meritevole!». Quando ha reso noto l’episodio, nel ’99, durante un processo a suo carico si presentarono in aula i rappresentanti del Wwf, di Lega Ambiente e della Protezione degli Animali per rendere onore al suo valore. Il giornalista Massimo Fini commentando la fuga di Vallanzasca dalla motonave Flaminia: «Rispetto ai criminali d’oggi (per non parlare di certi “pentiti” che, avendo commesso delitti anche più odiosi dei suoi, sono beatamente a piede libero) ha questo diverso: è un bandito leale. Un bandito liberale. Un bandito onesto in una società dove, troppe volte, gli onesti sono dei banditi». Per Paolo Longanesi, invece, «Il suo spessore criminale dipendeva più dagli articoli dei rotocalchi che dalle imprese compiute». «Ne ho combinate di tutti i colori, penso di aver fatto dei veri disastri, però credimi, non sono cattivo, è che ho il lato oscuro un po’ sviluppato». Il 5 maggio 2008 Vallanzasca ha sposato Antonella D’Agostino, compagna di giochi al Giambellino. La notte del Medini, c’era anche lei con Renato e Roberto. Vallanzaska. Il gruppo di musica ska nato nel 1991. Nell’album iPorn, la voce di Vallanzasca chiude la canzone Expo 2015: «Soldi a palate, affari, un business proprio… ma per chi? Altro che i miei lavoretti, queste sì che sono rapine con i controcazzi! E ve lo dice uno che se ne intende! M’hanno fregato il nome, che è tutto dire, perché era Vallanzasca, ci hanno messo una kappa e mi hanno inchiappettato». Le prime armi possedute facevano parte di un bottino rastrellato in un appartamento di lusso a San Siro, a quindici anni. Due beretta 7,65 e una calibro 22 da tiro a segno, una revolver Frankie Lama calibro 38, una Smith&Wesson calibro 38 canna lunga a sei colpi, due semiautomatiche di grosso calibro, quattro, cinque fucili da caccia per piccole prede e un fucile Remington 30/30 per caccia grossa. Per imparare andava a sparare abusivamente nel retri del poligono, all’Idroscalo, per non farsi sentire. Per l’ex questore di Milano Achille Serra e per Luca Fazzo, cronista di nera, la vera mente della banda della Comasina non era Renato Vallanzasca, ma Antonio Colia. www.renatovallanzasca.com. Il sito di Renato Vallanzasca, attivato il 30 ottobre 2007 e curato dalla moglie Antonella. Un bel giorno il sito non si è più aperto, ma su facebook ci sono diversi gruppi di fan di Vallanzasca, uno solo contrario. Il 12 settembre 2007 il rigetto della richiesta di grazia da parte del presidente Napolitano, inoltrata personalmente da Vallanzasca nel 2005, quando ancora non era stato declassificato dal regime di carcere duro e quando era presidente Carlo Azeglio Ciampi. La motivazione di richiesta di Vallanzasca: «Io non ho mai fatto il pentito, però sono sicuramente cambiato. Non sono mai stato un brigatista. Con il mio codice deontologico sono a posto. Ho presentato la grazia perché lo dovevo a mia madre e alla mia compagna Antonella. Qui in carcere è un carnaio: queste nuove carceri sono strutturate più per distruggere la personalità di un recluso che non per insegnargli a vivere in società». Al lavoro Vallanzasca ci va in bicicletta, 8750 metri, con un cavalcavia di mezzo, dove si faceva sempre superare dallo stesso ciclista, finché non è dimagrito di dieci chili e un bel giorno lo superò lui. «Una volta usavo la pistola per aver ragione di qualcuno. Oggi, la legge del più forte me la gioco sulle mie capacità fisiche e mentali. Pedalare stanca, ma si può essere più forti della fatica. Grazie alla tenacia, si possono valicare montagne che si credono impossibili. Anche a sessant’anni». Il 17 aprile 2010 gli hanno rubato la bicicletta, a cui era molto affezionato perché gliel’aveva regalata un caro amico: «Solo in quel momento mi resi conto di cosa poteva provare un povero disgraziato a cui avevano sottratto qualcosa cui teneva in modo particolare. L’avrei ricompra al triplo del suo valore, se avessi potuto […] era giusto che provassi pure io quel senso di frustrazione e di rabbia che ti assale nel renderti conto che qualche cornuto si è portato via qualcosa a cui tieni, magari ben oltre il valore intrinseco del bottino». «Oggi, se facessi il bandito, vivrei tre giorni. Perché o troverei uno che mi ammazza direttamente o che mi fa ammazzare per cento euro. Mandano a battere le bambine o le schiave. Per il grano o per un tiro di quella merda che manda in pappa il cervello, sono disposti a tutto. Niente regole, niente onore, niente amicizia, niente rispetto. La violenza è dappertutto ed è insensata. E ti assicuro che ce ne vuole a dirtelo, perché pure io ho ucciso. Ma io saltavo i banconi e lo mettevo in conto. Se andava male, sapevo che sarebbe toccata a me, o alle guardie che mi inseguivano sparando. Oggi chi è lo scemo che rapina una banca?». Quando incontrò per la prima volta Kim Rossi Stuart (interprete protagonista del film diretto da Placido sulla sua vita, Gli angeli del male), gli disse: «Sei troppo lungo e troppo magro per interpretarmi al meglio..». L’attore ha studiato a lungo Vallanzasca, convincendo, alla fine, lui stesso. Durante le riprese di una scena nel locale Bar Basso, a suo tempo frequentato proprio da Vallanzasca. «E lì, vidi Kim diventare me. Uguale. Non nel fisico. Ma nel modo di essere. Camminava con la mia andatura da ragazzo. L’atteggiamento era il mio: spavaldo, sicuro, un pizzico di sprezzo. Non sono mai stato un ganassa, però davo l’idea di uno che sapeva come andava il mondo e sapeva farsi i cazzi suoi. Il carisma ce l’avevo geneticamente garantito. Come stare allo specchio. Le mani, l’espressione del viso, la maniera di allisciarsi i baffi; il sorriso sardonico, lo sguardo da sciupafemmine. C’era tutto Vallanzasca: quello di qualche decennio fa. Purtroppo e meno male». «Tutto era politico, allora. E le mie simpatie andavano più ai rossi che ai neri. Però io ero e mi sentivo un bandito. Questa era la mia identità». Uno dei quattordici detenuti in Italia a sperimentare i “braccetti della morte”, allestiti negli anni Ottanta nei confronti dei detenuti più pericolosi: i detenuti erano soli 24 ore su 24, guardati a vista; non potevano tenere niente in cella e avevano un solo colloquio al mese con una sola persona e coi vetri divisori. Finito nei bracci della morte leggeva fino a due libri al giorno. La Bibbia da capo a fondo per cinque volte, per convincersi di essere «un ateo convinto». Intervistato da una televisione della Svizzera italiana (domanda, che cos’è la libertà per Vallanzasca): «la possibilità di correre in un prato, vedere le persone che voglio e fare all’amore con chi mi va». In un incontro con gi studenti in una scuola di Tirano, quando gli chiedono che cosa lo abbia portato a diventare assassino: «Chiunque inizia, anche un poliziotto, ad andare in giro con la pistola in tasca, finisce per usarla, magari per paura. Il rischio è che il danno sia irreparabile. Non giustifico niente di mio. Mi sono assunto la paternità, la correità, cioè di aver ucciso, anche se stavo in un caveau e materialmente non potevo aver sparato. Io non ho mai sparato per primo o per uccidere. Se l’ho fatto è perché ho cercato di sparare al bersaglio grosso in maniera che smettessero di procurarmi difficoltà. Ti sparo non per ucciderti ma per metterti nella condizione di non sparare». «Vorrei avere la possibilità di dimostrare che io sarei stato un numero uno anche senza la pistola in mano, ecco, questo è vero, questo lo penso, l’ho pensato. Vorrei poter essere l’esploratore della mia coscienza, e scoprire se ho manipolato i miei ricordi perché fossero coerenti con ciò che sono o penso di essere». Il 23 giugno 2010 il Tribunale di Sorveglianza di Milano ha rigettato la sua istanza di liberazione condizionale, anzi, l’ha dichiarata non ammissibile. L’avvocato Alessandro Bonalume: «Un vizio procedurale, una cosa che mancava e di cui non ci siamo accorti». Una multa di tremila euro non pagata, derivante da una condanna. Per Vallanzasca un pretesto per non decidere, un’occasione persa. Favorevole il parere espresso dai servizi che lo hanno tenuto sotto osservazione in carcere: «La detenzione ha favorito la strutturazione di una identità negativa che si alimentava di volta in volta con azioni sempre più gravi le cui conseguenze da un lato erano la logica risposta sanzionatoria ma che al contempo lo etichettavano costruendo la sua iper-immagine. [Tali meccanismi] appaiono chiari anche al soggetto che ora infatti non entra pienamente nelle dinamiche carcerarie, proprio al fine di “preservarsi”, e di non “contagiarsi”ulteriormente, e poiché il suo pensiero è ormai rivolto al fuori».