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 2010  settembre 15 Mercoledì calendario

BOTTA, L’ARCHITETTURA DEI RICORDI

Come si diventa architetti? «Incontrando gli altri» è la ricetta di Mario Botta, il progettista italo-ticinese che dal 25 settembre, nel suo MART (Museo d’arte di Rovereto) inaugura una grande retrospettiva su 50 anni di lavoro («Architetture 1960-2010» fino al 23 gennaio): «Sono ottanta progetti e tutti realizzati, più lavori di scenografia e design». Realizzati perché, come diceva il suo maestro Louis Kahn (al contrario di Benedetto Croce), «l’architettura non esiste; esiste solo l’opera realizzata».
Colpisce, di questa mostra, la sezione «Incontri», che documenta i debiti culturali e gli innamoramenti che Botta ha contratto verso grandi personaggi dell’arte e della letteratura che l’hanno «nutrito». Nutrito in una direzione tanto di moda, quanto sfuggente: contaminando il suo lavoro. «La vera contaminazione che mi ha nutrito è il sogno di Walter Gropius dell’opera d’arte totale, è il sogno delle Avanguardie. Oggi c’è contaminazione perché gli architetti invadono altri campi senza conoscere il proprio; ma così si mischia, non si contamina! Non c’è più sapere disciplinare. La contaminazione è nutrimento, se abdichiamo non c’è più architettura, che è gravità, luce, e sito irripetibile».
Cinquant’anni di incontri e contaminazioni con personaggi, talvolta, sfuggenti e persino leggendari, qui ricordati solo in qualche curioso aneddoto. Come quelli relativi al grande pianista Arturo Benedetti Michelangeli, che Botta ricorda con commozione. «Era venuto da me perché voleva ristrutturare una casa nel Canton Ticino. Diceva sempre: io sono solo un contadino bresciano e voglio una casa semplice. Una volta gli proposi di fare una finestra dalla parte verso monte Generoso e gli alberi. Ma lui disse: "No architetto, lì c’è un albero!". Perché no, maestro? "Perché una volta, in America, ho aperto la finestra e sull’albero c’era un giornalista che mi spiava". In compenso voleva realizzare lo studio dalla parte della strada. Io gli dicevo: "Ma lì ci sono rumori". Lui rispondeva: "Quelli sono i rumori della vita; ma se entra una mosca dalla montagna è impossibile suonare". Un’altra volta disse che non poteva andare più in giro perché a Lugano una signora l’aveva riconosciuto ed era svenuta dall’emozione. Era un uomo che viveva a contatto con l’assoluto».
Per il drammaturgo Friedrich Dürrenmatt, Botta ha costruito l’omonima Fondazione a Neuchâtel. Con lui ebbe un lungo sodalizio: «Friedrich era un orso calvinista, che scoprì la vita a cinquant’anni quando conobbe la seconda moglie, Charlotte, durante un viaggio in Grecia. Lei era innamorata, lui andò subito in crisi e scrisse sul diario: "Maledetta Pizia, avevo già raggiunto la pace dei sensi e ora mi rivolti così". Con lei scoprì i più semplici piaceri del vivere, come uscire a cena. Mi ricordo che la prima volta che glielo proponemmo lui rispose: "Ma perché? Si esce anche a cena?". Aveva cinquant’anni, era figlio di un Pastore protestante rigorosissimo, non era mai stato fuori la sera a passeggiare. Sondava lo spazio labirintico della psiche umana e dei miti con ossessione, era ateo ma nei suoi dipinti dipingeva i temi dell’Apocalisse: dipingeva come forma complementare al pensiero. Quando ho progettato il suo centro ho usato i quadri come se fossero citazioni del suo pensiero, che ho proiettato a parole sui muri». «Parlai a lungo anche con Gabriel García Márquez durante un convegno di tre giorni a Zermatt sulla creatività — ricorda Botta —. Eravamo lì come in clausura. Io ero amico di un suo conoscente di Bogotà, dove l’avevo già incontrato. Mi ricordo un dettaglio: la sera in cui mi vennero a prendere all’aeroporto di Bogotà sul soffitto dell’auto c’era un quadro. "È un Picasso", mi disse il suo conoscente. Quando ricordai questo particolare a Márquez lui rise e disse: "È questa la creatività per l’America Latina"».
Tra gli scrittori ricorda anche Edoardo Sanguineti: «Elio Facchinelli aveva una casa editrice che si chiamava L’Erba Voglio. Pubblicò la mia casa rotonda del 1980 e chiese la prefazione a qualcuno del Gruppo ’63. Provò con Balestrini, ma poi la fece Sanguineti, che scrisse una poesia con un gioco fonico. Diventammo amici; andavamo con Giovanni Pozzi, l’erede di Gianfranco Contini, a fare seminari a Bologna».
Più complessi gli incontri con artisti, registi e architetti, dall’amore per Strehler e il suo «Galileo» visto al Piccolo Teatro, del quale «sono debitore per le scenografie» alle sorprese nel rapporto con gli artisti. «Il pittore Jean Tinguely criticava sempre gli architetti. Diceva: "Voi costruite e io distruggo"; lui, infatti, assemblava rifiuti industriali dando loro nuova poesia. Era contro gli architetti e mi stupii quando venni chiamato per fare il suo museo: scoprii che mi aveva indicato per realizzarlo nel suo testamento; da vivo non me lo aveva mai detto; mi criticava». Lungo anche il sodalizio con la pittrice e scultrice francese Niki de Saint Phalle, che con Botta ha costruito l’Arca di Noè a Gerusalemme: «Lei era bravissima a realizzare animali, ma non riusciva a fare l’Arca e mi chiamò».
Ci fu poi la conoscenza con i due Max: Frisch e Bill. «Max Frisch era amico di Brecht, che era un genio nel capire gli spazi. Mi raccontava che quando portava Brecht in un cantiere questo era abilissimo nello scoprire gli errori spaziali, nel cogliere il punto debole». Quanto a Max Bill, «all’inizio non mi piaceva, io amavo Mondrian. Poi capii che era il meglio dell’arte concreta post Dada e Bauhaus, una vera intellighenzia ticinese. Ed era architetto».
Ma sugli architetti, a dominare è la figura del suo relatore di tesi, Carlo Scarpa. «Dal ’64 al ’69 a Venezia insegnò il meglio della cultura architettonica italiana, come Giuseppe Samonà, Carlo Aymonino, Valentino Pastor, Gian Ugo Polesello, Ignazio Gardella e proprio Scarpa, il migliore nel relazionare il nuovo con la preesistenza, come dimostra l’intervento a Castel Vecchio di Verona. In quegli anni, Scarpa e gli altri posero quei temi di apertura verso la città, che lì erano di valore etico e oggi sembrano fuori dalla disciplina. Vedi la Biennale in corso».
Pierluigi Panza