Sergio Romano, Corriere della Sera 14/09/2010, 14 settembre 2010
L’EST RAGGIUNGE L’OVEST (E CI INSEGNA QUALCOSA) —
Può accadere che un problema venga risolto mentre noi, distratti, ci occupiamo di altre questioni. Così sembra essere successo di quella parte della Germania che fu comunista sino al crollo del Muro e divenne parte integrante della Repubblica federale un anno dopo. Si chiamava «democratica» ed era stata costituita cinquant’anni prima, nel 1949, con i quartieri di Berlino occupati dall’Armata Rossa e cinque Länder: Brandeburgo, Meclemburgo Pomerania Occidentale, Sassonia-Anhalt, Sassonia e Turingia.
L’unificazione fu rapida e, tutto sommato, politicamente semplice, ma costò al bilancio tedesco una somma considerevole e, dopo gli entusiasmi iniziali per la libertà riconquistata, lasciò insoddisfatti e apparentemente nostalgici parecchi milioni di uomini e donne. Gli «ossi», come venivano chiamati i tedeschi dell’Est, lamentavano l’arroganza dei loro connazionali occidentali e si sentivano cittadini di seconda categoria. I sociologi e i politologi spiegarono che gli abitanti della Rdt avevano elaborato, durante il cinquantennio comunista, una nuova identità politico-culturale. Gli storici sostennero che quell’identità si era formata sulla base di un passato alquanto diverso da quello dei loro connazionali renani, svevi, bavaresi e amburghesi.
È vero che molti erano fuggiti dal «paradiso comunista», ma quelli che erano rimasti avevano assorbito i principi del materialismo dialettico, si consideravano i legittimi eredi del grande socialismo tedesco ed erano orgogliosi del particolare prestigio di cui la Rdt godeva all’interno del blocco sovietico. Anche i successi sportivi ebbero la loro parte. Le medaglie conquistate dalle squadre della Germania orientale sui campi sportivi internazionali dimostravano che vi era ormai in Europa una seconda nazione tedesca di cui era possibile essere fieri. Questi sentimenti identitari e le frustrazioni che ne derivarono furono alimentati dal continuo divario, dopo l’unificazione, fra le condizioni economiche dell’Est e dell’Ovest. Tutte le statistiche sembravano dimostrare che la vecchia Rdt sarebbe stata ancora per molto tempo una sorta di Mezzogiorno tedesco.
Questa rappresentazione fu utilizzata dalla classe politica. I governi se ne servirono per giustificare i finanziamenti che occorreva destinare allo sviluppo dei Länder orientali, mentre l’opposizione massimalista se ne servì per conquistare una più forte base elettorale. Il partito comunista della Germania orientale era morto, ma la sua eredità era stata raccolta dalla Pds (partito del socialismo democratico) di Gregor Gysi, figlio di una delle personalità più interessanti del vecchio regime.
Quando abbandonò l’Spd del cancelliere Gerhard Schröder, Oskar Lafontaine creò con Gysi una nuova formazione, la Linke, che trovò all’Est una parte importante del proprio elettorato. Al governo serviva poter dire che i Länder orientali avevano bisogno di un particolare impegno finanziario. Ai massimalisti serviva poter sostenere che il capitalismo non sarebbe mai stato capace di colmare il divario fra l’Est e l’Ovest.
Oggi basta dare un’occhiata ai numeri per capire che il pessimismo era in gran parte ingiustificato. La disoccupazione è ancora consistente (un po’ meno di un milione, pari all’11,5%), ma negli ultimi anni è andata progressivamente diminuendo. La produttività nel 1989 era il 25% di quella della Germania occidentale: oggi è salita al 79%. Il Pil pro capite (prodotto interno lordo) è passato dal 43 al 71% e ha registrato un ulteriore aumento nel terzo quadrimestre del 2009. Le esportazioni sono cresciute dal 14,6% al 33,1%. L’aspettativa di vita è passata da 70 anni a 76,2 per gli uomini, da 76,2 a 82 per le donne (all’Ovest, rispettivamente, 77,4 e 82,5). I proprietari di un’automobile sono più numerosi all’Est che all’Ovest (il 57% contro il 51%) e tutti hanno scambiato la loro servizievole e patetica Trabant con una vettura moderna, uscita dalla catena di montaggio dei colossi dell’industria automobilistica tedesca. Il confronto tra l’Est della Germania e il Sud dell’Italia appare sempre meno convincente.
Avremmo dovuto accorgercene molto prima. Avremmo dovuto ricordare anzitutto che l’unificazione del Secondo Reich, nella seconda metà dell’Ottocento, fu realizzata grazie alla leadership prussiana. E avremmo dovuto ricordare in secondo luogo che fra l’Est della Germania e il Sud dell’Italia corrono alcune importanti differenze. Mentre il Sud viveva di una vecchia economia agricola ed era afflitto da un alto tasso di analfabetismo (più dell’80%), gli Stati della Germania orientale potevano vantare notevoli successi industriali e un ammirevole primato culturale. Dresda non era soltanto la capitale di un regno e la «Firenze del nord». Era anche il centro dell’industria chimica tedesca. Lipsia non era soltanto una delle capitali europee della musica. Era anche uno dei maggiori centri editoriali del continente, la città dove si stampavano libri in inglese per il mercato mondiale. Le università di Berlino e Lipsia non erano soltanto centri esemplari di formazione accademica. Erano altresì, grazie alla loro collaborazione con gli istituti per la ricerca scientifica e tecnologica, i motori dello sviluppo industriale dell’intero Paese: una caratteristica che hanno conservato, almeno in parte, persino durante il periodo comunista. E la Prussia, infine, aveva formato sin dal Settecento una burocrazia nazionale che sarebbe diventata il braccio di Bismarck durante il processo dell’unificazione e la spina dorsale dell’intero Paese nei decenni successivi. Era assurdo pensare che questo capitale di intelligenza, disciplina e lavoro, sopravvissuto al nazismo, si fosse disperso in due generazioni di regime comunista. Ed è altrettanto assurdo pensare, come va di moda in questi giorni, che la nostalgia del passato borbonico possa servire al decollo del Sud.
Sergio Romano